A chi segue questa rubrica, ormai prossima al decennio di vita, non sarà sfuggito come vi trovino frequentemente spazio quei libri in cui si raccontano microcosmi umani, segmenti di tempo e di esistenze che, per quanto minimi, non sono (o sono stati) soltanto storie, ma, a loro modo, Storia. Ecco, allora, il recente romanzo di Franco Faggiani “L’inventario delle nuvole” (Fazi) che ripropone gli anni della Prima guerra mondiale a Prazzo, un paesino del Cuneese in Val Maira, all’epoca con una popolazione di circa 2.000 abitanti, oggi ridotti a 179. È qui, dove “le montagne sono sbilenche, irregolari, incise da gole frastagliate e profonde”, che vive Giacomo Cordero (voce narrante) insieme al nonno Girolamo, la madre Lunetta, l’anziana Desideria, moglie del nonno in seconde nozze. Il padre, emigrato in Spagna per fare il cavatore di pietre, là era morto, “rimasto sotto un cumulo di rocce venute giù all’improvviso da una montagna mentre andava al lavoro, e da lì sotto non l’hanno neanche mai tirato fuori.” Il nonno è persona ruvida e scaltra, mercanteggia in vari generi di merce. Per sua decisione – e le decisioni del capofamiglia non ammettono dissenso – Giacomo, a otto anni, viene mandato a studiare da don Egildo, il prete di Borgo San Dalmazzo, “un posto lontanissimo, a tre o quattro giorni a piedi, già dove inizia la pianura”.
Vi starà per alcuni anni, fino a conseguire, da privatista e con brillanti risultati, la licenza liceale. Sarà ancora il nonno-padre- padrone a decidere, a quel punto, di farlo tornare al paese, poiché era arrivato il momento che anche il nipote imparasse “a trattare con i boscaioli per avere il legname migliore a prezzo conveniente, a comprare formaggi, granaglie e polli da rivendere a chi faceva i mercati, a seguire le coltivazioni della canapa e del cotone, a scegliere la lana buona.” Siamo nel 1915. Per nonno Girolamo la guerra risulta essere tutt’altro che una calamità. Riesce, infatti, a diventare fornitore ufficiale dell’esercito e i suoi traffici si ampliano. Al nipote affida un singolare settore merceologico, quello della raccolta dei capelli che, lavati e suddivisi per tipologie, vengono poi venduti ai fabbricanti di parrucche. Giacomo, esonerato dal servizio militare a causa di una leggera zoppia, inizia così a girare per paesi, valli e montagne a raccogliere “pels”. Ha con sé due gerle, una per depositarvi i capelli, l’altra stipata di mercanzie con cui remunerare le donne, disposte, per fame, a sacrificare le loro trecce. Un commercio per il quale Giacomo diviene specialista, creando una rete di rapporti anche oltre confine. In Francia trova un referente in Natale Rebaudi, esperto venditore che lo farà anche partecipe di alcuni segreti relativi a suo padre. Il ragazzo, insomma, è bravo, e questa esperienza di sacrifici, solitudine, pensieri segnerà il suo modo d’essere. Nondimeno gli sarà prezioso viatico quando, inaspettatamente, dovrà accollarsi tutti gli affari di famiglia. Attraverso questo racconto di formazione, scritto con nitore e adesione emotiva, Faggiani restituisce uno spaccato d’epoca, di geografie e di umanità di cui è giusto fare memoria.
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[…]
Nel 1915, l’anno in cui tornai nella Maira, l’Italia entrò in guerra. Ci fu un iniziale subbuglio al quale seguirono proclami e mobilitazioni, ma nella nostra famiglia non si avvertirono scossoni. Di personaggi come D’Annunzio, Cadorna, Battisti, Mussolini da noi non se ne sentiva quasi mai parlare. Nemmeno di Giolitti, che pure era delle nostre parti, di Mondovì. Il fronte in quel momento era lontanissimo dalle nostre valli e la gente da mandare a suldà la si andava a pescare nelle terre piemontesi del Nord, perché lì c’erano gli operai del dinamitificio di Avigliana di Alfred Nobel, e perché fino a Bardonecchia arrivava la ferrovia, mentre da noi facevano fatica a passare perfino i muli. Gli ufficiali li prendevano nelle Scuole di Cavalleria di Pinerolo o nei Cavalleggeri di Saluzzo, oppure al Genio Militare di Torino, e i militari da trincea, gli zappatori, li cercavano nel Vercellese e nel Novarese, perché si diceva che, avendo a che fare con le risaie e i campi piatti, sapevano ben scavare i fossi. «E le fosse», puntualizzava ogni tanto il nonno con amara ironia.
Tra le reclute registrate al distretto militare di Cuneo le più sfavorite furono quelle che lavoravano nei grossi paesi di pianura, dove c’erano le fabbriche, mentre quelle che venivano dalle zone di montagna le tennero quasi da parte.
«I nostri ragazzi», ci spiegò il nonno che si teneva sempre al corrente, «li tengono buoni qui perché spesso sono gli unici sostegni di famiglie numerose e anche per questioni strategiche: conoscono bene sentieri, valloni e creste di confine e se i francesi ci attaccassero sarebbero ottimi difensori, meglio di tanti militari di professione mandati da chissà dove».
E poi, comunque, c’era il fatto che dalle nostre parti molti uomini tra i venti e i trent’anni se ne erano già andati via, all’estero, e rimanevano perlopiù anziani o adolescenti.
Certo, alcuni di loro si erano anche arruolati volontari, quasi tutti nel battaglione Monte Argentera, ma lo avevano fatto senza capire a cosa sarebbero andati incontro, per spirito d’avventura, per incoscienza, credendo di stare alla larga da una vita proprio grama, spesso ai limiti della sopravvivenza. Una volta al fronte però si erano accorti che di avventura ce n’era ben poca, anzi. Più che terre, argini e paesi da riconquistare c’era la propria vita da conservare, per quanto difficile, perciò si cercava di stare alla larga da imboscate, scaramucce, assalti per evitare di essere feriti e soprattutto di perdere un braccio o una gamba, perché tra queste montagne ripide se ti manca un arto non puoi più fare niente e così finisci per morire lo stesso, annegando la pena nel vino cattivo.
«In guerra il proprio istinto vale più della ragione altrui», sentenziava il nonno quando in piazza si trovava a commentare il ritorno di qualcuno, che appena arrivato al fronte era stato lacerato da una granata o trafitto da una baionetta; malconcio ma comunque vivo.
Tra questi coscritti c’erano anche alcune conoscenze del nonno, che cercavano di fare un po’ il suo stesso mestiere. Così, partiti questi, la concorrenza diminuì e gli affari della nostra famiglia aumentarono.
All’inizio della guerra mia madre e Desideria erano preoccupate per me, temevano che, pur se si combatteva lontano, mi avrebbero comunque chiamato a fare il soldato. Ma il nonno rideva di gusto ai loro sospiri gonfi d’ansia. «State quiete, un ragazzo come lui», diceva indicando me, «non lo prende nessuno, perché è mezzo zoppo. E poi credete che io sia stupido? Mi sono informato al distretto militare: i figli unici di madri vedove saranno lasciati a casa, è scritto chiaro nei regolamenti».
«E se prendono te?», domandò d’istinto Desideria.
«Me? Figuriamoci! Anche se si sbagliano, ormai mi considerano troppo vecchio per imbracciare un moschetto o un piccone. E poi c’è un’altra faccenda: a quelli là», aggiunse mimando il saluto militare, «siamo più utili qui che al fronte».
Aveva ragione, perché un giorno vennero a cavallo fino a Prazzo, per interloquire avec monsieur Girolamo Cordero, alcuni ufficiali dal portamento distinto e dai modi esageratamente educati, per trattare di imponenti forniture di fluorite e magnetite che si trovavano in alcune miniere affacciate sulla Maira e soprattutto di legname grezzo. Serviva per costruire baracche, carri ferroviari, tetti di grandi officine, ricoveri per gli armamenti. Il nonno doveva procurare la merce e anche provvedere a trasportarla a Cuneo, nei magazzini militari del rione di Stura.
Due sere dopo quella visita, terminata la cena che come al solito era stata consumata con rapidità, ingordigia e in assoluto silenzio, il nonno ci aveva fatto sedere intorno al grande camino della cucina e ci aveva spiegato la situazione, partendo dal presupposto che la nostra vita sarebbe cambiata, almeno per un po’, diventando più faticosa, ma che avremmo comunque guadagnato una montagna di lire, a centinaia, anzi, a migliaia, decine di migliaia, tanto che avremmo quasi dovuto prendere qualcuno a fare la guardia notte e giorno ai soldi.
Però, per avere quei soldi, ognuno doveva fare la sua parte, con responsabilità e senso del dovere verso la famiglia, la valle e magari la patria. In quest’ordine.
[da L’inventario delle nuvole di Franco Faggiani, Fazi, 2023]
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