18/01/2013
Qualcuno ne ha sbagliato perfino la trascrizione del nome. Ha rischiato di esser privata dei dati identificativi individuali. Ora esce dall’ombra e pienamente acquista il ruolo di protagonista che le spetta. Virgina Martini Salvi, nata a Siena all’incirca verso il 1510 e morta a Roma posteriormente al 1571, merita una considerazione più attenta di quella finora avuta. Konrad Eisenbichler ha portato a termine una meritoria ricerca poliennale ed ha potuto così dare alle stampe l’opera poetica completa della donna (“L’opera poetica di Virginia Martini Salvi”, Accademia senese degli Intronati, Siena 2012). L’ampia introduzione va ben al di là degli aspetti letterari e traccia un vivido panorama degli anni drammatici che segnarono la fine della Repubblica. Si deve dire che il libro esce in coproduzione con il Senato di Victoria University, Università di Toronto. Dove l’autore insegna nel Centre for Reformation and Renaissance Studies. Le attuali condizioni di penuria dell’Accademia non avrebbero consentito di sfornare neppure un testo così essenziale e sprovvisto di qualsiasi fronzolo d’abbellimento.
Poetessa indomita - Figlia del giureconsulto Giovan Battista Casolani e moglie di Matteo Salvi, Virginia si distinse per una vena poetica alimentata da una schietta tensione civile. “Il suo tirocinio poetico – scrive nella voce del “Dizionario Biografico degli Italiani” Daniele Ghirlanda – si svolse con tutta probabilità intorno ai trattenimenti letterari promossi dal fervido ambiente dell’Accademia degli Intronati e in particolare da Alessandro Piccolomini”. Matteo era il maledetto rampollo d’una famiglia di maschi piuttosto turbolenti: sette fratelli ambiziosi in vena di avventure. I due più noti sono Giulio e Ottaviano che finirono sul patibolo domenica 11 giugno 1533 proprio quando Giulio deteneva la carica di Capitano del Popolo. Era riuscito a farsi eleggere appena cinque mesi dopo che gli spagnoli erano stati cacciati dalla città e si inneggiava ai francesi come liberatori. Sospettato di tramare a favore della causa imperiale fu arrestato e decapitato insieme al fratello e ad altri due “congiurati”. La famiglia Salvi era davvero “indocile” e tenne una linea ondivaga, fondata su una voglia di primato che non trovò approdi sicuri e fruttuose alleanze. Virginia, invece, in una situazione tanto tempestosa, si distinse per l’ardore filofrancese, ribadito in componimenti poetici diffusi a profusione, come oggi si farebbe con volantini di propaganda. Resisté con coraggio a pressioni e vessazioni.
L’arresto e l’esilio - Nel ‘46 fu addirittura relegata agli arresti domiciliari a Casole, presso la casa paterna. In coincidenza con la rivolta popolare del 1552, che provocò la cacciata degli spagnoli e l’insediamento di un folto contingente francese, Virginia salutò l’evento con versi che suonano come un inno di liberazione, indirizzato a Enrico II: “Ride tutta l’Italia e per te spera, / Enrico invitto, far quel che fatto hai / nel alma Patria mia colma di guai / che lieti la ritorni ove prima era”. Commovente è un altro sonetto dello stesso periodo, in cui ella nel lodare Enrico esalta i suoi modi non di aspro conquistatore, ma di dominatore suasivo e illuminato. Un suggerimento più che una constatazione, dettata, si direbbe, da una sensibilità femminile che rifiutava la visione machiavelliana tutta incentrata sulla forza e sulla violenza: “Così sue si de’far le patrie e i regni / non con l’inique crudeltà cotante”. È probabile che pure il caudatissimo anonimo sonetto affisso alla Loggia degli Ufficiali alla partenza degli spagnoli sia stato di sua mano: in effetti più di un motivo rende plausibile l’ipotesi e certe espressioni che uniscono analisi politica e delicatezza di accenti: la nostalgia per “l’antica e dolce libertade”, il monito a far sì che “desta e in piè stia la giustizia”. Si capirà facilmente perché dopo il 1555 Virginia sia stata costretta all’esilio. Da Roma continuò ad appellarsi alla moglie e alla sorella di Enrico II ed in particolare a Caterina de’ Medici perché restassero fedeli alla causa di un tempo: “Afflitti e mesti intorno a l’alte sponde / del Tebro altiero i cari figli vanno / de la mia Patria, e ’l grave a acerbo affanno / ciascun nel petto suo dolente asconde”. Anche dai pochi versi citati risalta netta una virtuosistica abilità versificatrice, che la Martini applicò non soltanto all’infuocato campo delle passioni politiche. Non mancano nel suo canzoniere, ora apprezzabile in una nitida edizione critica, testi ritmati da una colta affettività, governati da frequentazioni intellettuali e rattenute simpatie personali. Pietro Bembo è sicuramente la personalità più celebre tra le tante contattate. Eisenbichler si premura di avvertire che “il loro fu un incontro di menti, non di cuori”. Le età dei due fanno intravedere un rapporto lontano da qualsiasi implicazione fisica. Quando il Bembo fu nel 1525 a Siena per essere accolto come “l’Accurato” tra gli Intronati Virginia era al massimo una vispa ragazzina di quindici anni, mentre Bembo era un acciaccato cinquantacinquenne.
Poetessa dimenticata - Vien da domandarsi come mai l’indomita poetessa, figura così rilevante dal punto di vista civile e letterario, abbia subito una dura eclisse, al limite della rimozione. Ad esempio non è mentovata nello strano quanto famoso corteo di tre schiere (circa tremila donne) che nel gennaio 1533 – sotto la guida di Laudomia Forteguerri, Fausta Piccolomini e Livia Fausta – avrebbe attivamente contribuito a predisporre le difese della città. Se c’era una “leading lady” adatta alla bisogna era Virginia. Convincente è l’affilata disamina critica che porta a ritenere inventato di sanapianta o amplificato a dismisura il famosissimo episodio, trascritto pari pari dal Guazzo e non presente nelle più accreditate fonti senesi: Bardi, Simoni, Nini, Sozzini. Del resto anche la storia del cosiddetto Fortino delle donne senesi non regge. Ettore Pellegrini, che di quelle strutture conosce ogni pietra e non può essere certo imputato di divertirsi a demolire la buona fama di Siena, ha fatto notare che l’apparato fu costruito dal Peruzzi nel 1530 con normali maestranze. Durante l’assedio non fu mai al centro di attacchi o fatti salienti, dal momento che la fortezza ex-imperiale a sud est e le fortificazioni della Castellaccia di Camollia a nord ne avevano ridimensionato del tutto il valore strategico. Certamente donne e giovani furono impiegati nei cantieri dell’Antiporto (1553) e per erigere la trincea in Pian d’Ovile nel gennaio 1555. Sicché a testimoniare – e resuscitare – la stupefacente energia del patriottismo profondamente sentito da una donna eccezionale stanno versi torniti e sonanti: a riprova che la parola poetica resiste al tempo con la sua schietta ed esile verità più d’ogni altro racconto o di impropriamente celebrati reperti.
Articolo pubblicato su “Il Corriere di Siena” dell’11 gennaio 2013 (pp. 12-13)
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