Dalla introduzione
Ma chi era Piero Calamandrei? Padre della patria, giurista, avvocato, maestro competente e costituente del nostro passato remoto (dalla Liberazione, almeno), fino al vacillante futuro della nostra attuale andatura costituzionale. Ma anche scrittore, letterato, poeta e provetto naturalista. Ma quanto c’è di eccezionale, di sottilmente leonardesco, in questa personalità forse così unica del nostro panorama nazionale, tra eroi mendaci e modelli di ruolo cui far aspirare le generazioni a venire? Ma soprattutto: quanto c’è (invece e assieme) di paradigmatico nella strutturazione, costituzione, educazione, di una figura otto-novecentesca che si rivela via via attraverso questa progressiva pubblicazione dei suoi scritti? Un primo della classe, certo, ma di quel fiorentino e leopoldiano Ginnasio-Liceo Michelangiolo dove la concentrata qualità dei docenti formava ed educava la migliore borghesia dei suoi tempi. E che, dicono, ancora lo stia facendo. Vien da chiedersi quanto di semplicemente e meramente europeo ci fosse in quegli anni in una città come Firenze, poi anche capitale d’Italia, ma fulcro rinascimentale e non solo nella storia della cultura terrestre. In Europa forse molti erano a lui simili, nella generazione “borghese” di un figlio di un avvocato e parlamentare e nipote del pretore Agostino, con una nonna e una madre che avevano conoscenze – forse non eccessivamente erudite – tanto di confetture e di sobrie ricette quanto di governo domestico: ma che conoscevano per casalinga tradizione i nomi non dialettali di piante e di insetti, magari anche qualche cenno di linneiana tassonomia scientifica. Già in un’opera precedente, Inventario della casa di campagna, si rivelava il Calamandrei provetto naturalista. Ne sappiamo con queste due ultime opere di più grazie agli sforzi della nipote Silvia Calamandrei, custode solerte delle memorie di una famiglia indubbiamente eccezionale; ma anche (forse involontaria) archivista di personaggi che caratterizzano un’epoca neppure così remota. Un’epoca dove un insegnante impegnato di scienze naturali al Michelangiolo instillava nozioni scientifico-naturalistiche nella mente adolescenziale di Piero. Il docente che al ginnasio superiore insegnò a conoscere per nome le piante e gli insetti del mondo.
Per sua virtù quel caos luminoso di fogli e d’ali turbinanti in libertà quale ancora m’appare la campagna dei miei primi ricordi, si placò e si chiarì in un sistema di nozioni ordinate. I lepidotteri si separarono dagli imenotteri, le rosacee dalle graminacee: il più tenue filo di fieno, la più minuta elitra luccicante al sole si distaccarono ad uno ad uno dalla natura anonima e mi vennero incontro col loro doppio nome latino; quando ebbi saputo che la margheritina si chiamava Bellis perennis, non potei più incontrarla sui prati senza rivolgerle un saluto, come si usa, dopo la presentazione, fra persone di conoscenza. Ma in quanti ginnasi e licei delle principali città, anche della provincia, delle naturalisticamente dotte Isole Britanniche, Germania, patriottica Francia, si saranno verificati analoghi episodi di formazione scientifica “completa” del giovane fanciullo? Sospetterei dall’analisi acribica e comparata dei relativi libri di testo coevi agli studi della Calamandrei, che fossero molti. Almeno fin quando l’azione potente e mefitica del filosofo Giovanni Gentile non espellerà brutaliter in Italia le materie scientifiche dal curriculum giovanile in quanto evidentemente, in età fascista, non sufficientemente induttrici di “Cultura”, a palese favore di materie umanistiche: che metastaticamente ingombreranno gli orari di lezione almeno fino alla rivoluzionaria riforma del primo governo di centro-sinistra italiano, attuata a partire dal 1962 (ma che riguarderà esclusivamente i primi tre anni della Scuola Media Unica, lasciando praticamente inalterata l’impronta scienticida di Gentile sugli studi superiori). Confrontatomi con esperti del livello del botanico Sandro Pignatti, mi viene confermato che il possedere e “aggiornare” un erbario fosse caso eccezionale in quel periodo tra gli anni Trenta e Quaranta: quando l’ombra lunga e lugubre dell’influsso crociano sulla cultura italiana già ne limitava l’allestimento a una ristretta fase scolastica, ovviamente limitata a studenti abbienti che avessero sufficiente tempo libero dal lavoro minorile e magari coniugassero questa attività naturalistica con un senso estetico per il fiore o la delicata forma della specie vegetale. Neppure negli istituti agrari, che pure in Italia hanno avuto e talora mantengono ottime tradizioni, l’erbario era costante obiettivo didattico.
Con fiorentine eccezioni, come lo studioso esperto di palme Odoardo Beccari (1843-1920), attivo proprio in questa città toscana. Anche se tra il ’500 e il ’700 la scuola botanica italiana eccelleva in questa fase rinascimentale. Svetta Pietro Andrea Mattioli, senese del 1501 (afferendo alla corte d’Austria ma a lungo attivo in Italia); Mattioli, come Ulisse Aldrovandi (docente di “farmacologia” a Bologna), parte da quell’“Orto dei semplici”, che concentrava inpiccoli spazi selezionate specie di piante per produrre essenze e farmaci. Oppure il fondatore della scienza dei funghi, la micologia, quel Pier Antonio Micheli, fiorentino del 1679, il cui busto possiamo ancora rimirare nella basilica di Santa Croce. Ma come sottolineato in questa bella opera di Paola Roncarati, sarà proprio sotto l’ultimo granduca di Toscana che verrà arruolato da Palermo, dove godeva di ben poca considerazione, il botanico Filippo Parlatore. Uno dei primi erbari al mondo, sicuramente il primo vero erbario sistematico fu preparato nel 1563 da Andrea Cesalpino, medico aretino, allievo di Luca Ghini fondatore del primo Orto Botanico al mondo, a Pisa. L’erbario, custodito presso il museo dell’Università di Firenze, venne rilegato in tre volumi distinti del 1844 proprio dal Parlatore. Insomma, la Toscana patria di cotanta botanica e di già succosi bottini erbari avrà, come in queste pagine analizzato, sezionato, comparato, verosimilmente stimolato le fantasie e le naturali talentuose curiosità del giovane Piero. Certamente, questa opera che passerà “dolorosamente” per scritto secondario (e come potrebbe essere altrimenti) aggiunge non poco al ritratto già scolpito e oleoso di un personaggio dello spessore complessivo e completo di Piero Calamandrei. Paola Roncarati lo definisce giurista-scrittore. Che congoethiano furore botanico svelle, radici comprese, piante e fiori da essiccare. Pagine di sicci che diventano pagine di storia patria. E che alla botanica e alla zoologia, da provetto naturalista, teneva molto. Non a caso il Calamandrei trentenne pubblica nel 1925 il poemetto L’Erbario.
Ma il testo analizzato in questa prefazione non è semplicemente una ricognizione agiografica della storia della vita di Calamandrei, di quel Ginnasio-Liceo Michelangiolo (costola del Liceo Dante, dove la stessa Marcella Olschki, protagonista di episodi riportati nel testo, era stata alunna negli anni Trenta del ventesimo secolo) nelle pestilenze del regime che lo fa rifugiare ne «le stinte mummie dei fiori», il tratto decadente che contrappone la raffinata e perduta civiltà degli etruschi agli effetti “barbari” di certa muscolosa dominazione romana. Vi sono tanti altri profili: la casa nel bosco di Montauto, la civiltà agreste dell’innocente paese di Colcello, il monte Ceceri (quel mitico colle donde partì la sfortunata e mortale impresa leonardesca di far volare un uomo grazie ad ali posticce). Il libro si impronta a un raffinato e piacevolmente disomogeneo insieme che riesce a raccontare e inquadrare con sagacia Piero Calamandrei, la sua epoca e la sua passione bottinatrice per il profumato mondo vegetale; a parte una piccante appendice di Paola Roncarati, sul ruolo divulgativo femminile nella cultura floristica del XIX secolo. Consta di un primo capitolo sempre di Roncarati che vivacemente e delicatamente racconta e inquadra la vita del Nostro che, come un’edera rapace, arranca anche nelle sue avventure botaniche. Rossella Marcucci con rigore e attenzione esamina e descrive l’erbario di Calamandrei, inquadrandolo in una esaustiva storiografia degli erbari italiani; seguono belle e succose schede di questo erbario dai colori pastello mai eccessivamente stantii, com’è natura di oggetti prodotto dell’evoluzione darwiniana. Per un curioso di botanica, questa parte dell’opera può ancora rappresentare
un utilissimo strumento didattico per chiunque voglia anche domattina far incetta collezionistica di specie vegetali dei nostri climi.
Segue lo scritto di Francesco Cocozza, tra inclinazioni naturali del Piero, pietas verso la sua Etruria, qualche sforzo proto-ambientalista, e ancora delle beatitudini gaudenti di uno spirito libero e originale che si pasce della serenità spontanea e panica della natura, quale rifugio ermeneutico alle nefandezze della politica quando non ai lazzi mortali della guerra. Una vera chicca storiografica, infine ma che significa molto altro, la figura a pagina 182 dei fiori sfilati da Annina Calamandrei, zia paterna di Piero, da una corona al funerale di Umberto I nell’anno 1900: potente “prova provata” dell’originale abitudine famigliare ad allestire erbari.
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