L’emporio del cielo e della terra. Brava gente d’America

Luigi Oliveto

21/11/2024

Negli Stati Uniti James McBride è uno degli autori più apprezzati dalla critica e amati dal pubblico. Il suo ultimo romanzo “L’emporio del cielo e della terra” ha venduto un milione di copie. I lettori del New York Times hanno decretato che è da considerare tra i migliori libri degli ultimi venticinque anni. Le ragioni di un tale successo sono bene deducibili da ciò che lo stesso quotidiano newyorkese ha scritto: “Con questa storia, McBride fotografa in modo brillante un paese che sta cambiando rapidamente, attraverso gli occhi di chi è arrivato da poco e di chi prima era schiavo. McBride ci lascia un importante promemoria: anche in situazioni apparentemente impossibili, anche nel mezzo dei progetti più malvagi dell'umanità, l'amore, la comunità e l'azione possono salvarci”. È dunque comprensibile come una storia che in definitiva ricorda il lato migliore dell’America faccia presa sulla gente. Il romanzo si apre raccontando: “C’era un vecchio ebreo che abitava vicino alla vecchia sinagoga, su Chicken Hill, nella cittadina di Pottstown, in Pennsylvania, e quando gli agenti della polizia di Stato hanno trovato lo scheletro in fondo a un vecchio pozzo vicino a Hayes Street, la casa del vecchio è stata il primo posto dove sono andati. Questo nel giugno del 1972, il giorno dopo che un palazzinaro aveva buttato giù tutte le costruzioni della via per far spazio a un nuovo quartiere di case a schiera.” Ma il misterioso ritrovamento è solo un pre-testo. Il racconto arretra subito al 1925, quando in questo “minuscolo quartiere di case fatiscenti e strade sterrate vivevano i neri e gli ebrei della città, insieme ai bianchi immigrati che non potevano permettersi di meglio”. Qui risiedono anche i coniugi Moshe e Chona, originari dell'Est Europa. Due brave persone, un punto di riferimento per la gente del quartiere dove, raro esempio di vivace convivenza, ci si sostiene reciprocamente per sopravvivere. Il visionario e intraprendente Moshe apre il primo salone da ballo al quale possono accedere tutti, senza distinzioni di razza e censo. Sua moglie Chona (forse il personaggio più bello) gestisce l’emporio del quartiere (quello cui fa riferimento il titolo del romanzo) con generosa disponibilità nel dare ascolto alle persone e soprattutto nel vendere merce a credito. La grandezza d’animo di Moshe e Chona diviene coraggio quando accettano di nascondere all’interno dell’emporio un dodicenne, nipote dei vicini di casa. Il ragazzino, di nome Dodo, reso sordo da un incidente domestico ed orfano di genitori, rischia, infatti, di essere trasferito in un istituto per soggetti con problemi. Così hanno disposto le autorità competenti e comunicato con una lettera agli zii Nate e Addie. A seguito di una spiata, irrompe all’emporio Doc Roberts, medico bianco aderente al Ku Klux Klan, che si spinge fino ad aggredire la donna. Ne è unico testimone Dodo, subito portato via dalla polizia. La vicenda, pur segnata da sofferenze e soprusi, non chiude comunque alla speranza. McBride conduce il racconto da maestro, con una spigliatezza di scrittura che, anche nelle pagine più intense, non cede a patetismi. Certo, si avverte una empatia con personaggi, istanze di giustizia, spaccati di storia che non possono prescindere dalla biografia dell’autore (McBrine è nato a Brooklyn nel 1957 da padre afroamericano e madre ebrea esule dalla Polonia). “L’emporio del cielo e della terra” è un libro di forte impatto. Purtroppo anacronistico, non solo perché immagina cose di un secolo fa, ma perché parla d’amore per il prossimo, solidarietà, speranza, superamento dei pregiudizi. Insomma, questioni di imbarazzante inattualità. Il Washington Post, ha azzardato anche un sermoncino: “Abbiamo tutti bisogno e ce lo meritiamo di un romanzo come questo: intriso d'amore e capace di superare tutte le differenze che vorrebbero dividerci”. Parole sante, amen, alleluia, ha risposto la gente come in una scena di film (ovviamente americano). A proposito di cinema: Steven Spielberg ha acquisito i diritti cinematografici del romanzo; che – sia chiaro – è una bellissima storia che tutti vorremmo diventasse esemplare.  
 
***
Quarantasette anni prima che gli operai edili scoprissero lo scheletro in fondo al pozzo del vecchio agricoltore di Chicken Hill, il direttore ebreo di un teatro di Pottstown, Pennsylvania, che si chiamava Moshe Ludlow, ebbe una visione su Mosè.
Moshe ebbe quella visione un lunedì mattina di febbraio, mentre ripuliva i resti di un’unica data di Chick Webb nel suo All-American Dance Hall and Theater, in Main Street. Webb e la sua ruggente band di dodici elementi erano il più grande spettacolo musicale a cui Moshe avesse mai assistito in vita sua, a parte il fine settimana di due mesi prima in cui era riuscito ad attirare fin lì da Cleveland Mickey Katz, il talentuoso ma volubile genio yiddish della musica klezmer, e a farlo suonare nel suo teatro per un intero, festoso fine settimana di spasso yiddish per famiglie. Era stato un evento incredibile. Katz, il mago bambino del clarinetto, e il suo ensemble di sette elementi appena costituito avevano affrontato una furiosa tormenta dicembrina che aveva scaricato trentacinque centimetri di neve sulle montagne della Pennsylvania orientale pur di arrivare in tempo per suonare, e grazie alla benedizione di D.I.O. ce l’avevano fatta, perché Moshe aveva contato duecentoquarantanove ebrei – venditori di scarpe, negozianti, sarti, fabbri, imbianchini delle ferrovie, proprietari di gastronomie, tutti con le rispettive mogli e provenienti da cinque Stati diversi, compreso il Nord di quello di New York e il Maine – radunati nel suo teatro per assistere al concerto. C’erano perfino quattro coppie arrivate dal Tennessee, che avevano guidato attraverso le Blue Ridge Mountains per tre giorni, nutrendosi di uova e formaggio, senza poter mangiare kosher durante lo Shabbat, solo per raggiungere i loro confratelli yid subito prima dell’Hanukkah, entro la quale tutti quanti avrebbero dovuto essere a casa ad accendere candele per otto giorni. Per non parlare del fatto che uno dei mariti era un fanatico, convinto che il digiuno del Tisha b’Av, che di solito si celebra in luglio o in agosto, si dovesse rispettare due volte l’anno invece di una, il che significava, ogni dicembre, rimanere in casa per tre settimane di fila a soffrire la fame e a coprire le pareti di immagini di fiori come segno di ringraziamento nei riguardi del Creatore per la Sua generosità nell’aver aiutato il popolo ebraico dell’Europa orientale a sfuggire ai pogrom e a raggiungere un minimo di pace e prosperità nella terra promessa d’America. Per colpa sua e del tempo atmosferico, al loro arrivo, dopo essersi pigiate a bordo di due vecchie Packard – una delle quali senza riscaldamento – e aver viaggiato attraverso la feroce tormenta, tutte e quattro le coppie erano di pessimo umore. Quando sentirono che era prevista altra neve annunciarono che sarebbero ripartite immediatamente, ma Moshe riuscì a dissuaderle. Era quello il suo dono. Era capace di convincere le corna a saltar via dalla testa del diavolo. «Quante volte nella vita capita di ascoltare un giovane genio?», aveva detto loro. «Sarà il più grande evento della vostra esistenza». Poi li aveva condotti nella sua microscopica stanza in una pensione di Chicken Hill, un minuscolo quartiere di case fatiscenti e strade sterrate dove vivevano i neri e gli ebrei della città, insieme ai bianchi immigrati che non potevano permettersi di meglio; li aveva piazzati davanti al calore della stufa a legna, ingozzati di tè freddo ormai tiepido e gefilte fish e intrattenuti con la storia della sua nonna rumena che era saltata fuori da una finestra per evitare di sposare un ebreo haskalah, ed era atterrata su un rabbino chassidico austriaco.
«Lo ha mandato a finire nel fango!», aveva esclamato. «E quando lui ha alzato gli occhi, lei gli stava leggendo la mano. Così si sono sposati».
Il racconto aveva fatto affiorare sorrisi e sghignazzi sulle facce degli ospiti, perché tutti sapevano che i rumeni erano matti. Con le loro risate che gli risuonavano ancora nelle orecchie, Moshe era tornato di corsa dalla folla radunata in mezzo alla neve, in ansiosa attesa che si aprissero le porte del teatro.
Mentre scendeva lungo le strade fangose di Chicken Hill verso Main Street e il suo teatro, si sentì mancare il cuore. La parvenza di coda che si era formata un’ora prima era esplosa trasformandosi in una calca di quasi trecento persone. Per di più, Moshe fu informato che il volubile genio Katz era arrivato in teatro ma, dopo aver affrontato la terribile tormenta, era di pessimo umore e minacciava di andarsene. Moshe entrò di corsa e scoprì con sollievo che il suo sempre affidabile aiutante, un anziano di colore di nome Nate Timblin, aveva fatto accomodare Katz e la sua band nel backstage, davanti al calore della stufa a legna, e aveva servito loro tè caldo in bicchieri di vetro, uova kosher fresche, gefilte fish e pane challah, tutto apparecchiato per bene in stile buffet. Il giovane Katz sembrava soddisfatto e annunciò che lui e il gruppo avrebbero iniziato a suonare appena finito di mangiare. A quel punto Moshe tornò fuori a tenere a bada la folla.
Quando vide che stava arrivando altra gente – ritardatari in corsa dalla stazione ferroviaria che portavano borse e valigie – afferrò una scala e ci salì sopra per parlare a tutti. Durante la sua vita in America non aveva mai visto così tanti ebrei tutti insieme in un unico luogo. Gli snob riformisti di Philadelphia in giacca e cravatta si accalcavano insieme agli operai e portavano borse e valigie – afferrò una scala e ci salì sopra per parlare a tutti. Durante la sua vita in America non aveva mai visto così tanti ebrei tutti insieme in un unico luogo. Gli snob riformisti di Philadelphia in giacca e cravatta si accalcavano insieme agli operai siderurgici di Pittsburgh, che si pigiavano addosso ai ferrovieri socialisti di Reading, tutti col berretto con lo stemma della Pennsylvania Railroad, che a loro volta stavano spalla a spalla con i minatori dalle facce scure venuti da Uniontown e Spring City. Alcuni avevano con sé le mogli. Altri erano in compagnia di donne che, dati i cappotti di pelliccia, gli stivali di pelle e le pettinature sfolgoranti, erano tutto tranne che mogli. Un tizio era accompagnato da una goy bionda alta quindici centimetri più di lui, vestita di un allegro verde irlandese e con un cappello che sembrava un incrocio tra un trifoglio e gli spuntoni della corona della Statua della Libertà. Qualcuno blaterava in tedesco, altri chiacchieravano in yiddish. Qualcuno strillava in un dialetto bavarese, altri parlavano in polacco. Quando Moshe annunciò che ci sarebbe stato un leggero ritardo, la folla si agitò ancora di più.
Un giovane chassidico di bell’aspetto, con un caftano, una sacca di iuta e un cappello di pelliccia, dentro cui aveva ammassato i capelli ricci e che portava sulle ventitré come un fedora, annunciò di essere giunto fin lì da Pittsburgh e che non avrebbe ballato con nessuna donna: parole che provocarono risate e un po’ di aspri epiteti, di cui alcuni in tedesco, sui cretini polacchi che si vestivano come pivelli appena arrivati in America.
Moshe era sconcertato. «Perché sei venuto a un ballo se non vuoi ballare con nessuna donna?», chiese al giovane.
«Non sto cercando una ballerina», rispose secco il bel chassidico. «Sto cercando una moglie».
 
[da L’emporio del cielo e della terra di James McBride, trad. di Silvia Castoldi, Fazi Editore, 2024]
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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