“The wall”. Si intitola come il mitico album dei Pink Floyd ed è l’ultimo libro di John Lanchester, giornalista e scrittore britannico che, con questo romanzo, spinge l’analisi del tempo presente prefigurando un disperante futuro. Romanzo fortemente distopico. Il muro in questione è stato costruito per centinaia di chilometri a protezione dell’intera Gran Bretagna, perché, dopo il cambiamento climatico che ha modificato la geografia del pianeta, una moltitudine di Altri giunge dal mare in cerca di terra asciutta. Il mare, dunque, va pattugliato; il muro presidiato giorno e notte. Per farlo ci sono i Difensori, giovani uomini e donne arruolati in una sorta di servizio di leva: due anni, 729 notti vissuti con l’incubo che qualche Altro possa superare il Muro. Per ogni invasore che riesca nell’impresa, un Difensore sarà abbandonato in mare. Intendiamoci, chi riesce a entrare sarà comunque costretto a scegliere tra morire d’eutanasia o diventare schiavo in quel residuato di mondo spettrale ed angosciante. Il protagonista della storia, Joseph Kavanagh, è giustappunto un Difensore che ha iniziato il suo periodo di servizio: “Sul Muro fa freddo. È la prima cosa che ti dicono tutti, ed è anche la prima che noti quando ti ci mandano; è la cosa a cui pensi, tutto il tempo, quando ci sei sopra, ed è quella che ricordi quando non sei più lì. Sul Muro fa freddo”. In quelle gelide notti Kavanagh vive le sue paure, monta a guardia della propria civiltà mentre il resto del pianeta volge all’esaurimento (di acqua, aria, cibo, risorse energetiche). Scruta nel buio per sorprendere il nemico, ma non vede che fantasmi. Prova anche a pensare ad una vita normale, alla fidanzata, a un destino diverso. Si chiede il senso (il non senso) di ciò che sta al di là e al di qua del Muro, e se ci sia uno spiraglio per salvarsi. Tranquilli, è pura distopia, fantascienza. Speriamo sia così.
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Sul Muro fa freddo. È la prima cosa che ti dicono tutti, ed è anche la prima che noti quando ti ci mandano; è la cosa a cui pensi, tutto il tempo, quando ci sei sopra, ed è quella che ricordi quando non sei più lì. Sul Muro fa freddo.
Cerchi delle metafore. Freddo come l’ardesia, come un diamante, come la luna. Freddo come l’elemosina; questa è buona. Ma ben presto ti rendi conto che il freddo è tutt’altro che una metafora. Non somiglia a nient’altro. È un mero stato fisico. Perlomeno quel genere di freddo. Il freddo è il freddo è il freddo.
E quindi è questa la prima cosa che ti colpisce. Un freddo che non somiglia a nessun altro freddo. È un freddo strettamente legato al posto, un attributo fisico permanente del luogo: quel freddo è una delle sue proprietà fondamentali, gli è connaturato. E ti colpisce come un’unica entità, la prima volta che vai al Muro, il tuo primo giorno di servizio. Sai che dovrai rimanerci per due anni. Sai che in pratica è lo stesso ovunque, almeno dal punto di vista geografico, ma sai anche che alla fine tutto dipende da come sono i tuoi compagni. Sai che non puoi farci niente. È un pensiero spaventoso, ma in un certo senso è anche vagamente liberatorio. Non hai scelta: il Muro in genere ti dice che non hai scelta.
Fai un breve addestramento, niente di che. Sei settimane. Perlopiù si tratta di imparare a maneggiare l’arma, pulirla, prendersene cura e usarla. In quest’ordine. Un po’ di allenamento fisico, ma niente di che; un sacco di esercitazioni per abituarsi a vegliare nel cuore della notte, al sonno disturbato di continuo, a improvvisi attacchi di panico, a repentini contrordini, a test di disciplina notturni. Questa cosa te la inculcano in tutti i modi: la disciplina ha sempre la meglio sul coraggio. In un combattimento vince chi obbedisce agli ordini. Non è come nei film. Non serve essere valorosi, bisogna obbedire e basta. E più o meno questo è quanto. Il resto dell’addestramento avviene direttamente sul Muro. Te lo impartiscono i Difensori che sono lì da prima di te. E a tua volta tu lo impartirai ai Difensori che verranno dopo. In pratica, ecco cosa sei in grado di fare quando arrivi: alzarti nel cuore della notte e prenderti cura della tua arma.
Di solito si arriva dopo il tramonto. Non so perché, ma l’usanza è questa. E quando arrivi hai già una lunga giornata alle spalle: a piedi, autobus, treno, un secondo treno, camion. Alla fine è il camion che ti porta a destinazione. Tu e il tuo zaino rimanete impalati al freddo, nel buio pesto. Davanti a te c’è il Muro, un bestione di cemento lungo e basso che si snoda perdendosi in lontananza. Sebbene il Muro sia perfettamente perpendicolare, quando ti ci trovi sotto hai l’impressione che penda verso di te. Che possa crollare e travolgerti da un momento all’altro. Come se ti si volesse appoggiare addosso.
L’aria è piena di umidità anche quando non è realmente umido, sebbene in realtà lo sia spesso per via della pioggia o degli spruzzi delle onde che schizzano oltre il bordo. A ridosso del Muro non c’è quasi mai vento, ma qualche volta sì. Al buio e con l’umidità il Muro appare nero. L’unico sentiero da seguire, l’unico segnale o indizio riguardo a cosa fare o dove andare è una rampa di gradini di cemento: infatti è sempre vicino ai gradini che ti lasciano. In cima, nel corpo di guardia, c’è una piccola luce, ma tu ancora non capisci cos’è che stai guardando. Di solito invece ti soffermi a pensare che il Muro in realtà è più alto di quanto credessi. Naturalmente tu già l’avevi visto, dal vivo e in fotografia; e forse addirittura nei tuoi sogni. (Questa è una delle cose che impari quando sei sul Muro: molto prima di doverci andare per forza, un sacco di gente se lo sogna di notte). Ma quando ti trovi ai piedi del Muro e guardi in alto con la consapevolezza che dovrai rimanere lì per due anni e che la cosa migliore che ti possa capitare nel corso di questi due anni è scendere vivo da quel Muro e non dovertici mai più nemmeno avvicinare per il resto della tua vita, ecco allora che ti appare diverso. Ti appare molto alto, molto ripido e molto scuro. (Lo è). I gradini scoperti, di cemento, ti sembrano scoscesi e scivolosi. (Lo sono). Ti dà l’idea di essere un posto freddo, aspro, inclemente, disperato. (Lo è). Ti senti in trappola. (Lo sei). Non vedi l’ora che tutto finisca, non vedi l’ora di essere da qualche altra parte, daresti tutto quello che hai per non essere lì. Anche se non sei religioso, ti metti a pregare, ad alta voce o piano poco importa, tanto non cambia niente, perché alla fine quello che dici è: ti prego ti prego ti prego fammi scendere dal Muro; e invece rimani. Cominci a salire i gradini. È così che inizia la tua vita sul Muro.
Mentre salivo cominciai a tremare; mi piacerebbe poter dire che era per via del freddo. Probabilmente un po’ era il freddo e un po’ la paura. Non c’era un corrimano, e più salivo più il cemento diventava umido. Ho sempre avuto un po’ paura del vuoto, anche in posti poco alti. A un certo punto cominciai a fissarmi che sarei potuto scivolare e precipitare, e più salivo più quel pensiero mi occupava la mente. Mi dicevo: adesso precipito, mi spacco la testa e muoio, e così il mio servizio sul Muro finirà ancor prima di cominciare. Diventerò uno zimbello. Te lo ricordi quel deficiente che...? Ma almeno, in quel caso, non dovrei più stare sul Muro.
Una volta arrivato in cima, mi diressi verso il corpo di guardia. Dal vetro smerigliato di una finestra si vedeva una luce. Riuscire a scorgere qualcosa all’interno non era possibile. Non sapevo dove andare o cosa fare, ma non avendo altre opzioni bussai alla porta. Nessuna risposta. Bussai di nuovo e sentii un rumore che interpretai come un invito a entrare.
Fui investito da un’ondata di calore. Di colpo mi si appannarono gli occhiali, e non vidi più niente. Sentii una persona ridere e un’altra che diceva qualcosa sottovoce. Mi tolsi gli occhiali e mi guardai intorno strizzando gli occhi. La stanza era un disadorno bugigattolo di cemento. Le pareti erano tappezzate di cartine. C’erano due persone sedute in due angoli opposti: uno era un imponente uomo di colore, con le guance segnate da cicatrici; indossava un maglione d’ordinanza a trecce color verde oliva. Era il Capitano, anche se allora ancora non lo sapevo. Era l’unica persona sul Muro che io abbia mai visto indossare la divisa. Per noialtri, invece, la divisa non bastava a tenerci al caldo. Il Capitano mi guardava senza sorridere. Alle sue spalle c’erano tre schermi radar verdi.
«Un Difensore orbo» disse. «Fantastico».
L’altra persona, un uomo bianco piuttosto tarchiato, rispose al commento con una risatina di scherno; indossava un berretto di lana: era il Sergente, ma all’epoca non sapevo nemmeno questo.
«Mi chiamo Kavanagh» dissi io. «Sono nuovo». Suona sciocco adesso come allora, ma non avevo idea di cos’altro dire. I due non ridevano più. Mi guardavano e basta. Il tipo in divisa si alzò e mi venne incontro squadrandomi dalla testa ai piedi. Era alto, mi superava di mezza testa, come minimo.
«Io sono il Capitano» disse. «Lui è il Sergente. Dovrai obbedire ai nostri ordini senza metterti a sindacare. Ti ci vorranno più o meno quattro mesi prima di capire cos’è che stai facendo. Io ho il potere assoluto di estendere il tuo periodo sul Muro, senza appello. Non devo fornire motivazioni. Non c’è altro modo per scendere dal Muro se non aspettare che passino i tuoi due anni e che io dia il consenso a lasciarti andare. Se questa cosa non è stata sufficientemente chiarita durante l’addestramento, la chiarisco adesso. Tutto chiaro?».
Era tutto chiaro. Gli risposi di sì.
«Lo porti in caserma» disse al Sergente. «Io vado sul Muro».
E uscì. Il Sergente, una volta solo, cambiò leggermente atteggiamento.
«Allora» mi disse. «I sergenti sono due, uno per ogni squadra di turno. Io sono il tuo. L’altro adesso è sul Muro. A quest’ora dovrei già essere a letto, e invece sono rimasto in piedi ad aspettarti perché sono un santo. Chiedi a chiunque. I tuoi compagni di turno li conoscerai domani mattina. Adesso ti spiego velocemente cosa dovrai fare. Il resto potrai scoprirlo domani. Come ha detto il Capitano, ci vuole un po’ di tempo per ambientarsi, e il modo migliore è ripetere, ripetere, ripetere. All’inizio puoi fare domande, solo che molto presto la gente si stufa, perciò quando ti viene in mente di aprire bocca per fare una domanda il mio consiglio è: chiediti prima se sai darti da solo l’ovvia risposta».
Mi mostrò la mensa – uno spoglio bugigattolo di cemento con tavoli e sedie –, il salottino comune – uno spoglio bugigattolo di cemento con un enorme televisore e dei divani molto malconci –, l’armeria, chiusa a chiave, e l’infermeria – uno spoglio bugigattolo di cemento con quattro letti in acciaio e zero personale medico. Poi mi fece scendere le due rampe che portavano alla caserma: era così che i Difensori chiamavano la camerata dove dormivano tutti insieme. Anche questa era uno spoglio bugigattolo di cemento. Dopo essere rimasto sulla soglia per circa un minuto, i miei occhi, ormai adattatisi al buio, cominciarono a distinguere i dettagli principali. Nella camerata c’erano trenta letti, quindici per lato, con tramezzi di compensato a dividerli in cubicoli. In fondo c’era il bagno. Quella disposizione mi era familiare perché era identica a quella della caserma dove avevo fatto l’addestramento. Un lato della stanza era privo di fonti di luce esterna, l’altro aveva delle finestrelle quadrate poco più che ad altezza d’uomo. I letti lungo la parete di destra erano tutti vuoti perché quella metà dello scaglione stava svolgendo il turno di notte. I letti lungo la parete di sinistra erano tutti occupati da corpi che dormivano, tranne il nono, che era vuoto e da quel momento in poi sarebbe stato il mio.
Posai il bagaglio in fondo al mio cubicolo. Mi sfilai le scarpe, la giacca e il cappotto e mi misi a letto. Le lenzuola erano ruvide, ma le due coperte erano piuttosto spesse e così mi riscaldai in fretta. Sentivo i miei nuovi compagni di squadra che russavano o brontolavano. La fame di solito mi rende particolarmente sveglio. Mi ricordai che non mangiavo da quando ero partito. La mia mente frullava impedendomi di dormire. Stanco, insonne, in preda all’ansia, me ne stavo lì disteso a guardare il soffitto e pensavo: mi aspettano soltanto due anni così, altre 729 notti oltre a questa. Sempre se sono fortunato e tutto fila liscio.
A un certo punto devo essermi addormentato, perché qualcosa mi svegliò. Forse era un nuovo tipo di sonno senza i vantaggi del dormire e tutti gli svantaggi di un risveglio brusco. Sentii il suono di una sveglia e qualche istante dopo il letto che tremava. Quando aprii gli occhi vidi la faccia di un uomo chino su di me, abbastanza vicino da sentire l’odore caldo e vagamente fetido del suo alito. La faccia era tutta barba, occhi e berretto di lana. La cosa buona era che sorrideva.
«Carne fresca» disse. «Io sono il Caporale. Conosciuto anche come Yos. Cinque minuti per lavarsi, quindici per la colazione, poi ci raduniamo». Fece tremare il letto ancora una volta, come per augurarmi buona fortuna, poi si tirò su e si diresse verso il bagno. Anche lui era alto, ben oltre il metro e ottanta. Attorno a lui altri compagni di squadra che cominciavano ad alzarsi, brontolavano, si grattavano. Notai che quasi tutti dormivano praticamente vestiti. Fatto qualche metro, il Caporale si fermò e si girò verso di me.
«Non fare quella faccia preoccupata» mi disse. «Hai presente quel detto: non preoccuparti, potrebbe non succedere mai? Qui è diverso. Sei sul Muro. È già successo tutto». Rise e mi lasciò lì.
[da Il muro di John Lanchester, trad. di Federica Aceto, Sellerio, 2020]
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