L’appello: pronunciare un nome è dichiararlo alla vita

Luigi Oliveto

10/12/2020

«“Sono Omero Romeo, il vostro insegnante di scienze.” Non appena ho finito di scandire le parole, mi tolgo gli occhiali da sole e mostro i miei occhi lattiginosi e perduti. “E sono cieco.” […] “Dal momento che io non posso vedervi, dal vostro nome dipenderà la vostra stessa vita, come nella tavola periodica la posizione dell’elemento dal numero atomico. Per questo svolgeremo l’appello nel modo che adesso vi spiegherò.” […] “Ciascuno di voi si alzerà e scandirà il suo nome, con voce chiara, così che io possa associare a quel timbro il nome e la posizione nell’aula.”» E’ così che nel romanzo “L’appello” di Alessandro D’Avenia (Mondadori) il protagonista, un professore supplente, si presenta ai ragazzi di una classe decisamente disastrata (una classe-ghetto di dieci ragazzi difficili) prossimi ad affrontare, chissà come, gli esami di maturità. Quell’appello che di necessità dovrà compiersi in modo affatto rituale e distratto, rappresenta per Omero Romeo qualcosa di più di un’esigenza pratica. Racchiude la ragione del suo essersi dedicato all’insegnamento, cioè spingere ed aprire alla vita degli esseri umani (che proprio questo significa ‘ad-pello’, spingere verso). Perciò ha deciso di fare l’insegnante. Per ‘salvare’ nomi, poiché lui che istruisce alle scienze sa bene che un fenomeno non esiste “sino a che non lo identifichi e non gli dai un nome”. Dunque – dice alla sua sparuta scolaresca di emarginati e smarriti – “voi siete i fenomeni per i quali a me è chiesto di stabilire il nome preciso e l’appello è la formula completa che salva il mondo.” Sarà quello il modo per portarli a scegliere se vogliano “essere dei fenomeni unici o dei fenomeni da baraccone: tutti uguali e utili soltanto a far ridere la gente.” Ecco, allora, che pronunciare il proprio nome a voce alta, dinanzi agli altri, diviene un dichiararsi alla vita, un farsi consapevoli della propria unicità. Quei ragazzi resi pressoché invisibili nel chiuso di un’aula, sono finalmente ‘visti’ da un cieco che, per di più, apre loro gli occhi sul mondo. E insieme, maestro e discepoli, divengono ‘vedenti’.
 
***
La vita va da quando decidono che nome darti a quando quello stesso nome è solo un graffio su una lapide. Nell’uno e nell’altro caso non hai l’iniziativa, quelle lettere sono tutto ciò che hai per venire alla luce e provare a rimanerci. Forse per questo gli antichi dicevano che il destino è nel nome: che ti piaccia o no, sei chiamato a rispondere all’appello. Nel mio caso è così: mi chiamo Omero, in greco “colui che non vede”… e cinque anni fa sono diventato cieco. Omero Romeo a dirla tutta, 45 anni, DNA per metà di padre professore universitario di astrofisica, appassionato di musica classica e di sua moglie, iniziato al mistero della vita e precipitato ora in quello della demenza senile; per l’altra metà di madre professoressa di greco e latino, appassionata di Omero (il mio nome lo ha scelto lei, mio padre aveva proposto un più semplice Alberto, in onore di Einstein) e di enigmistica (il mio nome è anche l’anagramma del mio cognome). Ho cercato di mescolare alla meglio questo eccessivo patri-matri-monio genetico con risultati in corso di verifica. Laureato in chimica, fede certa nella tavola periodica e nel mistero, appassionato del cosmo e di Dio, sedotto ogni giorno da mia moglie e allenato all’esistenza da due figli, amico immaginario di Einstein e nuovo insegnante di scienze di una classe abbandonata dalla professoressa precedente per morte repentina, occorsa il 2 settembre. La forza di gravità l’ha richiamata con violenza sulle scale di casa a motivo dell’attrito esercitato sul suo piede dall’unico affetto che le era rimasto, un gatto raccolto per strada, ironia della sorte o della morte, e dimostrazione di ciò che ho sempre pensato: i gatti, oltre a dormire 16 ore al giorno, sono animali senza scrupoli. L’unico che io abbia mai amato è il gatto del paradosso di Schrödinger, vivo e morto nello stesso istante. Sono quindi diventato all’improvviso il direttore di un’orchestra che caos e probabilità con studiata ironia hanno messo insieme.
Ma se è vero che tutte le classi felici sono simili fra loro, è ancor più vero che ogni classe infelice è infelice a modo suo. La quinta che ho ereditato proprio nell’anno in cui mi sono deciso a riprendere l’insegnamento da quando ho perso del tutto la vista canta una infelicità corale, a cui ciascuno partecipa con un timbro inconfondibile. Ne scaturisce una sofferenza polifonica, in cui ogni dolore si collega a un altro, lo arricchisce, per affinità, o lo esalta, per contrappunto, con inattesa armonia. Se di una sinfonia si ascolta la partitura di un singolo strumento può sembrare persino stonato, eppure quella linea musicale è necessaria all’insieme. Decimati in senso letterale – sono rimasti in dieci – dalle intemperie della scuola, ma più ancora da quelle della vita, non li hanno ridistribuiti, perché la loro peste avrebbe contagiato altri: conveniva tenerli isolati e aspettare che l’infelicità si autodistruggesse. Proprio loro sono capitati a me, che avevo smesso di insegnare da cinque anni, e mi sono reso di nuovo disponibile: ho bisogno di sapere se sono ancora vivo. Einstein ha detto che Dio non gioca a dadi con l’universo, ma il supplente cieco mi sembra proprio un brutto tiro: precario nell’anima e nel corpo, fa da guida a precari del corpo e dell’anima. O è una commedia o è una tragedia, non ci sono vie di mezzo. Oppure semplicemente è la prima puntata di Lost.
Quel che è certo è che da quando sono diventato cieco la mia vita è diventata epica, come quella degli eroi antichi: un’occupazione a tempo pieno, senza pause. Devo essere sempre lì: presente. Non posso nascondermi, posso solo abbandonarmi e rischiare. Vivo allo scoperto e la vita mi sbatte in faccia come il vento: una bella giornata non è più una giornata di luce, ma di vento sulla pelle, nelle orecchie e nelle narici, perché il vento racconta, trasportando polvere, suoni e odori, tutto ciò che ha raccolto lungo il suo viaggio. Per me le cose e le persone non sono, accadono. La fisica del ventesimo secolo lo conferma: la realtà è un intreccio di storie che accadono e vivere è imparare ad ascoltare, perché le cose e le persone si rivelano solo quando dai loro il tempo di cui hanno bisogno per raccontare la propria, il tempo che ci vuole a spogliarsi senza provare vergogna. Dove sei? Fu la prima domanda di Dio a Adamo dopo che ebbe mangiato del frutto che l’avrebbe dovuto rendere sovrumano. Ma lui, che non era diventato dio, si era invece scoperto vergognosamente mortale: ero nudo e mi sono nascosto. Sprechiamo la maggior parte del nostro tempo e delle nostre energie a nasconderci, ma sotto sotto vogliamo venire alla luce. Siamo fatti per nascere, non certo per morire. E un nome ben detto dà luce e dà alla luce ogni angolo dell’anima e del corpo, perché purtroppo ciò per cui vogliamo essere amati, noi, lo nascondiamo. Questo è il potere di un nome proprio: fermare la ruota incessante del tempo e far ricominciare da capo una storia in cui tutto è stato già visto. Questo è il miracolo di un appello ben fatto.
 
[da L’appello di Alessandro D’Avenia, Mondadori, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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