L’apostolo di pietra. L’epos doloroso e sferzante di Niffoi

Luigi Oliveto

17/11/2022

In una realtà ormai contraffatta dal virtuale, monca di fisicità, astratta e inodore, sia lode ai racconti di Salvatore Niffoi e al suo realismo magico che ci rapisce dentro universi arcaici dove sublime e infimo acquistano pari solennità, la malia del canto epico. Un nuovo capitolo di questo epos è ora proposto nel libro “L’apostolo di pietra” (Giunti). Il teatro è ancora la Sardegna, un piccolo paese della Barbagia con il nome fittizio di Oropische. Qui, una notte d’estate, la notte di San Lorenzo, accade che l’intera popolazione faccia lo stesso sogno: un apostolo di pietra scende dal cielo su una scala di cristallo e va a posizionarsi nella piazza della cattedrale, vicino alla fontana di Su Semene. Al mattino tutti accorrono là per dare riscontro al loro sogno, e la statua del santo c’è veramente. Si scatena a quel momento la ridda delle invocazioni e delle richieste: “la piazza che ospitava la fontana si riempì di persone che pregavano a schiocchi, con suoni avulsi, che prima implodevano in gola e poi esplodevano in aria come fuochi d’artificio nell’ultimo giorno di carnevale”. Ciascuno pretende la propria grazia, fosse anche la più turpe. Davanti alla statua, che talvolta sembra pure parlare, sfilano Nabiscu, Lillicu, Bore, Juvanne, che tutti i giorni scendono in miniera senza sapere se ne torneranno vivi; Tiricu Mugrone detto Gardu, rifiutato dal padre perché nato deforme; Consolina Meliacra, ossessionata dall’amore per Simmacu Virdarolu; il vecchio Albino Suriache non arreso alla speranza di incontrare la Madonna dei gigli; Lisandra Porriolu, che vive in un corpo sbagliato e chiede all’apostolo di darle finalmente quello desiderato. Il santo esaudisce tutti, e così, fatta la grazia, ciascuno mostra le proprie contraddizioni, crudeltà, depravazioni. Che tale è la natura umana: “Tempo bizzarro e gente ventulera. Ne aveva quasi le tasche piene il Santo, di quei disperati che andavano da lui solo nel momento del bisogno. Gente abituata a chiedere e mai a dare, a bestemmiare invece di pregare. Tutti cercavano altrove, lontano, quello che in fondo avevano sotto gli occhi a portata di mano. Ciechi vedenti erano!” Con una prosa che dalla ruvidezza ricava lirismo, Niffoi allestisce un teatro di disperazione e verità i cui personaggi sono colti in gesti, moti d’animo primordiali. Allora quello scampolo di geografia che è Oropische (“Quel mattino lo scirocco ruggiva sui tetti sparando raffiche di polvere calda. I comignoli tremavano come ali di farfalle stese a essiccare sopra una corona di spine.”) poco ci mette a farsi l’umanità intera.
 
***
 
La notte di San Lorenzo, di un anno che non ricordo, Urvica Neulache fece uno strano sogno. Come in un film proiettato sul fondale scuro del cielo vide un apostolo di pietra che, ciondolando la testa peggio di un ubriaco, scendeva da una scala di cristallo scolpita in un ovale turchese. Aveva i capelli lunghi, ondulati e bianchi, avanzi di lino strappati a una vecchia tela.
Si trovava nella piazza di fronte alla chiesa di Santa Croce. Guardandosi intorno, Urvica si accorse di avere accanto a sé tziu Nineddu Corevonu, in mutande e canottiera. L’organetto a tracolla, un boccione di vino nero tenuto in braccio come una creatura e i santissimi che gli friggevano dalla voglia di suonare. Le sue dita battevano sulla tastiera come impazzite.
Dùn durudùn durudùn durudùn…
Intrappolata dentro quella visione, cullata da una melodia lontana, vide arrivare a uno a uno gli abitanti di Oropische. Tutti portavano con sé qualcosa da bere o da mangiare. Urvica si unì a loro e cominciarono a ballare in cerchio.
Dùn durudùn durudùn durudùn…
La luna piena d’agosto incorniciava i volti delle persone in estasi, che si muovevano battendo forte i piedi, seguendo la musica con movimenti frenetici e ondulatori del corpo. Alcuni, che avevano fatto appena in tempo a infilarsi dentro una sacchetta vuota, somigliavano a frati scappati da un convento dopo aver visto in faccia il demonio. I bambini riempivano d’acquavite affumicata i corni di muflone. Le femmine portavano brocche piene d’acqua fresca dalla fontana di Su Semene e se la spruzzavano addosso come una benedizione.
Dùn durudùn durudùn durudùn…
La calura era insopportabile, il sudore si spalmava fra la pelle e i vestiti come una resina che sapeva di cuoio e cipresso. Così Urvica e gli abitanti iniziarono prima a sbottonarsi il costume e poi a spogliarsi. Sembrava avessero aspettato da sempre qualcuno che li liberasse dal loro stato di torpore muffoso. Sentivano dentro la pancia un’esaltazione acerba e antica, in bocca il sapore del primo peccato, nello sguardo la meraviglia che lascia la scoperta del tempo che passa.
Dùn durudùn durudùn durudùn…
La gente danzava e l’Apostolo scendeva, agitando le braccia e sfarfallando le mani. Poi il suo volo terminò, giunse a terra, e gli abitanti gli si fecero vicino. In testa portava un cappello di velluto porporino con le frange dorate. Il volto, grinzoso come una plancia di sughero appena strappata dal tronco, era quello di un uomo senza pace. Un uomo che in vita di sicuro aveva masticato spighe mature, pezzi di ossidiana e fango indurito dallo scirocco. Aveva gli occhi gonfi di chi ha pianto tanto e i piedi scalzi. Piedi sporchi, piccoli e nodosi, di santo che aveva camminato soltanto su strade di pietra e campi di ortiche. Unghie incarnite e mani callose, abituate a maneggiare il cuneo, la mazza di ferro, l’aratro e il coltello. Il Santo di pietra era scolpito nella trachite rosa, con le vene grosse e bene in vista, che da lontano sembravano pulsare davvero.
Dun durudùn durudùn durudùn…
Le immagini del sogno si susseguivano una dopo l’altra, si attorcigliavano e si confondevano, come ombre colorate e svolazzanti.
Qualcuno, nell’ebbrezza dell’estasi, provò ad allungare le mani per toccarlo, ma sentì subito un bruciore forte e fu avvolto da una tempesta di fuoco. «Pìsti, pìsti, pistizzone, che questo deve essere il Santo del Focorone!»
A quel punto la musica di Nineddu Corevonu si fermò di colpo. Una nuvola gravida si spanciò per le strade ricoprendole con un manto di trucioli dorati e una scossa tremenda fece vibrare tutto, precipitando ogni cosa nell’abisso.
 
[da L’apostolo di pietra di Salvatore Niffoi, Giunti, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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