L’«anima spezzata» cui allude il titolo del romanzo di Akira Mizubayashi è il listello di legno che viene inserito nel corpo degli strumenti a corda (in tal caso un violino) affinché, mantenendo il dovuto distanziamento tra la tavola armonica e il fondo, il suono possa propagarsi al meglio. Ma è chiaro, nella vicenda narrata dallo scrittore giapponese, che a spezzarsi (e a ripristinarsi) insieme a quel violino sono lo spirito, la coscienza, i sentimenti; l’anima, appunto. La storia inizia nel 1938. Siamo a Tokio, dove quattro musicisti amatoriali si ritrovano abitualmente per suonare musica classica occidentale. Del quartetto, l’unico giapponese è Yu, un insegnante di inglese. Gli altri sono due studenti e una studentessa cinesi, che, per quanto ostile sia diventato il clima dopo l’invasione della Manciuria da parte del Giappone, hanno comunque deciso di restare a Tokio. È il pomeriggio di una domenica. I quattro, a casa di Yu, stanno misurandosi sulla partitura del quartetto in la minore opera 29 di Schubert quando irrompono alcuni militari. Arrestano l’insegnante e gli studenti perché sospettati di cospirare contro l’Impero. Gli strumenti musicali finiscono a terra fracassati. Il piccolo Rei, figlio undicenne di Yu, nascosto dentro un armadio, segue impaurito la scena. A guidare l’azione punitiva è il tenente Kurokami, peraltro un amante della musica, appassionato melomane. Vede il bambino, ma nulla dice agli altri soldati. Abbozza un sorriso, gli consegna i pezzi rotti del violino del padre e lo lascia lì, nella casa devastata e ormai disabitata.
Un francese, amico del padre, adotta Rei, che dunque sarà portato a Parigi. Qui crescerà e continuerà a vivere con la sua compagna Hélène diventando un esperto liutaio. Anche Hélène lavora nel settore, è una bravissima archettaia. Sarà proprio lei a raccontare a Rei la storia della violinista giapponese Midori Yamazaki, il cui amore per il violino le era stato trasmesso da un nonno militare. Quella vicenda evoca a Rei qualcosa, tanto da decidere di contattare la violinista per saperne di più. Vuole riconnettere i frammenti del suo passato, così come ha dedicato anni di lavoro a rimettere insieme i pezzi del violino di suo padre, unica cosa rimastagli del genitore. Dopo sessant’anni, Rei riporterà a Tokio lo strumento perfettamente restaurato per consegnarlo alla nipote del tenente Kurokami. Un gesto di ricongiunzione alle proprie radici, alla pur dolorosa memoria dell’infanzia, che avviene nel segno della musica e del suo potere salvifico. Una storia iniziata sulle note di Schubert, compositore che si capisce essere particolarmente amato da Akira Mizubayashi. L’autore, in apertura di libro, cita quanto Theodor W. Adorno ebbe a scrivere a proposito della musica schubertiana che fa sgorgare lacrime senza saperne la ragione, “poiché noi non siamo ancora quelli che questa musica ci promette di essere, ma unicamente siamo nella felicità senza nome di sentire che basta che essa sia per noi certezza che un giorno le somiglieremo.”
***
“Domenica 6 novembre 1938, Tokyo.
Rumore sordo e pesante di passi di stivali. Incalza, rallenta. Qualcuno sta arrivando. Si è fermato... ha ripreso a camminare... si è fermato ancora. Adesso è vicino. Mi sembra di sentire il suo respiro. Un sussurro che attraversa il legno. Ha appoggiato qualcosa sulla panca? Sono al buio. Tremo di paura. La paura mi dà un brivido lungo la schiena. Silenzio. All’improvviso, il velo di oscurità si lacera. Un grosso quadrato luminoso irrompe davanti a me. Cosa vedo? I miei occhi abbacinati scorgono un’immensa figura di uomo, dritta in piedi, un’uniforme militare color kaki. Non vedo la testa e i piedi. Vedo il davanti dell’uniforme coi bottoni allineati in verticale, una pesante sciabola che pende dal fianco. Le braccia, le mani che sbucano dai polsini, due gambe fino al ginocchio come robusti tronchi d’albero. La luce illumina crudele i miei piedi coi calzini verdi di cotone che non posso più nascondere. Accanto ai miei piedi pietrificati, il mio libro... con la copertina bianca e un sottile bordo arancione. Il titolo, in grossi caratteri neri, si offre senza vergogna alla luce viva: E voi come vivrete?. Sotto il titolo, in caratteri piccoli, il nome dell’autore e in basso, in caratteri medi, il nome della collana a cui appartiene: Bibliothèque des petits citoyens. Lo prenderà? Sbrigati, bisogna nasconderlo! No, meglio non muoversi... un istante dopo, poggio la mano destra sul libro e lo afferro. Ritraggo con cautela la mano tremante... trascorrono infiniti secondi... non so cosa lui stia facendo, il corpo non si muove di un passo. Ho paura. D’istinto, chiudo gli occhi. Il silenzio persiste. Li riapro appena. Lui si china lentamente, molto lentamente, come se esitasse, come se non fosse sicuro sul da farsi. Una testa d’uomo, con un képi dello stesso colore dell’uniforme, mi appare davanti. In controluce, la testa è velata da una fitta ombra. Dal bordo del képi una striscia di stoffa sempre color kaki scende fino alle spalle. Solo gli occhi brillano come quelli di un gatto che spia le tenebre. I miei occhi, ora sbarrati, incontrano i suoi. Credo di intravedere un vago sorriso, appena accennato, che si dilata negli occhi. Cosa farà? Mi farà del male? Mi trascinerà fuori da questo nascondiglio? Mi rannicchio ancora di più su me stesso. A un tratto, lui si abbassa e subito si rialza, ha in mano il violino rotto che deve aver appoggiato, qualche istante prima, sulla panca di fianco all’armadio dove sono nascosto. All’improvviso sopraggiunge una voce maschile forte e insistente, che si avvicina rapida:
‘Kurokami! Kurokami!’
Lui gira la testa di scatto come se si domandasse da dove viene esattamente la voce, come se cercasse di identificarne il proprietario, mentre una smorfia gli contrae il viso.
Mi porge, senza parlare, il violino rotto, schiacciato che, con le sue quattro corde a disegnare un profilo bombato, nell’oscurità ha l’aspetto di una bestiola agonizzante.
Non so cosa fare... esito... ma, alla fine, timorosamente, prendo lo strumento danneggiato fra le mani.
‘Kurokami! Tenente Kurokami!’
Lui si affretta a chiudere l’anta, fissandomi un’ultima volta. Lo sguardo inquieto e smarrito che mi rivolge è accompagnato da un accenno di sorriso che svanisce subito al sopraggiungere di colui che grida il suo nome.
‘Ah, eccoti! Cosa stai facendo, Kurokami? Ce ne andiamo. Non abbiamo tempo da perdere.’
‘Sì, capitano! Mi perdoni, verificavo che non avessimo dimenticato nulla...’
Nel buio dell’armadio, sento chiaramente una dura voce maschile e credo sia quella che prima gridava ‘Kurokami!’ Mi stupisce sentire il nome Kurokami, perché non avrei mai immaginato che ‘neri (kuro) capelli (kami)’ potesse essere un cognome.
L’uomo dice qualcosa che non riesco a capire con un tono autoritario o come qualcuno che sia adirato. Mi fa paura. Un’altra voce maschile gli risponde in modo pacato, tranquillo, quasi dolce. È la voce di colui che mi ha dato il violino?
A poco a poco le voci si allontanano. I passi anche. Resto al buio. Presto non sento più nulla. O meglio, sento in fondo alle mie orecchie il canto fioco e ostinato delle cicale che stanno per morire.
È l’acufene, parola che ho imparato di recente da mio padre. È il rumore del silenzio, per così dire.
Guardo dal buco della serratura. La sala è buia perché le tende nere sono chiuse, ma sufficientemente rischiarata dai neon per convincermi che non c’è più nessuno. Che ora è? Non dev’essere ancora scesa la sera, ma comincio ad avere fame. Tendo l’orecchio... e mi dico che davvero non c’è più nessuno. Allora sollevo il chiavistello il più delicatamente possibile e cerco, spingendo l’anta, di non fare troppo rumore. Ma quella cigola... Taci! dico tra me. Aspetto un poco... niente di nuovo, è sempre tutto silenzioso. Non c’è più nessuno. Rimetto le scarpe di tela che avevo tolto per non fare rumore. Esco dal mio nascondiglio, il violino rotto in mano, il libro nella tasca dei pantaloncini. Faccio qualche passo incerto, camminare mi fa male, ah! Le gambe mi formicolano! Mi fermo. Aspetto qualche istante, riprendo a camminare. Attraverso il salone e mi avvio verso l’uscita. Spingo, con tutto il corpo, il pesante portone d’ingresso. Adesso sono davanti all’edificio del Centro culturale cittadino. Guardo il cielo. Il giorno se ne va. Comincia a imbrunire. Mi sento solo, smarrito. I singhiozzi mi serrano la gola. Una forza oscura, enorme, mi schiaccia, mi getta addosso ombre informi, opprimenti. Qualcuno passa per strada. La polizia militare, fucile in spalla, pattuglia. Non vedo nessun ragazzino intorno a me. Dov’è andato papà? Tornerà qui? O rientrerà a casa? Prendo la via di casa. Accelero il passo... tenendo il violino rotto come fosse un animale morente che voglio salvare a tutti i costi...”
Sono in piedi, davanti all’altare dentro l’armadio a muro, spalancato. Ho gli occhi chiusi. Sento alle mie spalle il dolce profumo di una presenza femminile. Scendo lentamente le buie scale del tempo...
[da Anima spezzata di Akira Mizubayashi, trad. di Cettina Caliò, La nave di Teseo, 2023]
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