L’amore? Roba da supereroi

Luigi Oliveto

31/12/2020

“Supereroi. Servono i superpoteri per amarsi tutta la vita”. È il titolo dell’ultimo libro di Paolo Genovese (Einaudi Stile libero); per ora romanzo, presto film. Quasi un ‘risarcimento morale’ dopo le storie di disamore che il regista/scrittore aveva raccontato nel film (bello ma crudele) “Perfetti sconosciuti”. Non più, dunque, il non-amore delle ipocrisie e degli inganni, ma l’amore supereroico del nonostante-tutto, che resiste alla quotidianità, all’indifferenza, ai conflitti, alle fughe, alla sofferenza. Questo vivono i due protagonisti, Anna e Marco. Lei donna molto istintiva, fuori dagli schemi, di professione fumettista (“Tutto quello che ci accade potremmo disegnarlo. Tutto. Possiamo disegnare tutto. Quello che non possiamo disegnare è il tempo. E tutti gli attimi che mette in fila.”) Lui estremamente razionale. In ragione del suo lavoro – docente di fisica – ritiene che ogni fenomeno abbia una sua spiegazione. Anche se il loro incontro, avvenuto una prima e poi una seconda volta per puro caso, difficilmente può essere ricondotto a una formula, spiegato scientificamente. Se però quel continuo ritrovarsi (anche dopo, negli anni, nella vita di coppia) non è un algoritmo, non è destino, allora può veramente trattarsi d’amore. Certo, roba da chi (magari senza saperlo) possiede superpoteri. Eh sì. Anna e Marco sono eroi dell’ordinarietà (a dispetto dell’ossimoro). Conoscono il tempo del continuo perdersi e ritrovarsi; il tempo del dolore, dei sentimenti un po’ sbilenchi e dei momenti perfetti. Un libro che fa pensare. Astenersi refrattari al pianto.
 
***
 
Questo inverno ha portato con sé nubi che stazionano grigie, come uccelli migratori arrivati da lontano che non hanno fretta di andare. E quando il cielo di Milano decide che è ora di rovesciarle a terra lo fa con rabbia e determinazione, allora si ripiegano i cavalletti, si arrotolano alla rinfusa i ritratti in esposizione, si raccolgono colori e pennelli e via. Non rimane che fuggire in cerca di riparo, persino i cani sono rintanati, e quelle che sembravano due gocce d’acqua sono diventate violente martellate sul selciato. Il portico lungo il naviglio è la salvezza.
Anna poggia le sue cose per terra, si asciuga l’acqua dalla faccia con la manica. A pochi metri di distanza un ragazzo, anche lui in cerca di riparo, avrà qualche anno più di lei. Guarda la pioggia con una strana fissità; sembra incantato, muove leggermente la testa come se stesse contando le gocce che cadono, le labbra sono distese, un accenno di sorriso. Gira il volto di scatto verso Anna che quasi sobbalza, la fissa con la stessa immobilità riservata alla pioggia. Anna sostiene lo sguardo. Non è intimorita né infastidita: vede in lui solo un’altra anima sorpresa dall’acquazzone.
Lei ha i capelli zuppi incollati al volto, un cappotto rosso di feltro, gonna a balze e scarpe basse. È bella. E il ragazzo sembra accorgersene perché stavolta la linea delle labbra si inarca e appare un sorriso più grande. Anna osserva lo strano tizio dai capelli corti coi polsini della camicia azzurra che escono dalle maniche del cappotto grigio e si convince della sua innocenza.
Decide di ricambiare il sorriso.
Lui torna a fissare la pioggia, poi come il più bravo dei prestigiatori parla anticipando il pensiero di Anna che si stava chiedendo: «Chissà questo strano tipo che voce ha?»
– Quattro metri e mezzo al secondo.
Anna lo guarda, per nulla stupita da quella buffa affermazione. Lui continua.
– Per bagnarsi di meno bisognerebbe percorrere quattro barra cinque metri al secondo.
Le piace quel discorso che sembra provenire dal tempo dell’infanzia, quando ci si poteva ancora meravigliare per una piccola cosa e le soluzioni riuscivano a scardinare la razionalità.
Ora è il turno di Anna.
– Io da bambina pensavo che se camminavo piano l’acqua mi colpiva solo in testa ma per più tempo…
Lo sguardo del ragazzo passa dalla pioggia a lei.
– … invece se camminavo veloce le gocce mi venivano addosso e mi bagnavo tutta, ma per meno tempo, e non sapevo mai cosa era meglio.
Marco raccoglie il discorso e lo continua, cercando di dare la risposta che Anna aspettava da anni.
– In realtà andrebbe calcolato con la legge del moto rettilineo uniforme, e dipende dall’angolo con cui le gocce cadono e dalla loro dimensione.
Tocca di nuovo a lei.
– A volte correvo. Pensavo che se fossi stata velocissima sarei riuscita a schivarle e a rimanere completamente asciutta.
È insolito il modo in cui si incastrano le loro parole; il sapere di lui e le teorie strampalate di lei si mischiano in modo armonioso, come se quelle frasi attendessero il momento giusto per essere accoppiate. Una sintonia inaspettata che sembra fermare il tempo e donare equilibrio a pensieri sulla carta scombinati.
La pioggia non accenna a smettere, un’auto passa a pochi metri da lì alzando un’onda da una pozzanghera, ma nessuno dei due si sposta: il flutto si scaglia ai loro piedi, qualche goccia li colpisce. Marco le si avvicina e lei rimane ferma in attesa di qualunque cosa stia per accadere.
– Posso? – dice lui, cortese.
Lei non capisce, lui non aspetta e prende dalla sacca un pennarello, toglie il tappo con i denti e comincia a scrivere sul palmo della propria mano.
Anna è incredula, allunga il collo per sbirciare: è una specie di formula matematica, una di quelle che i geni scrivono di getto alla lavagna nei film.
– In teoria, se VP sta per velocità delle gocce di pioggia e VM per la nostra velocità media… – ipotizza il ragazzo che poi mostra la formula del ragionamento ad Anna tendendo il palmo della mano aperta; lei non ha neanche il tempo di leggere, capire, né tantomeno controbattere, che quello strano tizio esce dal nascondiglio dei portici e comincia a camminare veloce sotto la pioggia, come uno Zio Paperone meditabondo in preda ai suoi mumble mumble.
– Se andiamo a sei chilometri orari ci vorranno circa ventitre minuti per essere completamenti bagnati.
Pronuncia queste parole perso nel suo mondo. Si volta, guarda Anna e si riavvicina a lei, ma senza rientrare al riparo. La guarda.
I loro occhi si specchiano per un istante, poi continua.
– Ma se aumentiamo la velocità a quindici chilometri orari, possiamo ridurre il fattore di inzuppamento del cinquanta per cento…
Ora la pioggia ha aumentato ritmo e intensità, ma il ragazzo sembra non accorgersene. Si muove di nuovo in strada, torna ancora una volta verso Anna per poi allontanarsi nella direzione opposta.
– … e se aumentiamo ancora la velocità…
Anna lo segue con lo sguardo, divertita ma soprattutto incuriosita da come andrà a finire quella passeggiata troppo assurda anche per lei. Solo che adesso la colonna dei portici le impedisce di avere una visuale completa. Allora si sporge, sta quasi per chiamarlo, vorrebbe chiedergli di ritornare e di terminare il ragionamento, perché ci si stava appassionando e le sarebbe piaciuto sapere il risultato di quella stramba equazione. Però lui non c’è più, è sparito. Anna è incredula, guarda ancora. Nulla.
«Non può sparire così», ride dentro sé. Fa capolino di nuovo, cercando di non bagnarsi, poi si sporge di più lasciandosi colpire dalle pesanti gocce. Si aspetta di rivederlo da un momento all’altro. Non accade. Ride di nuovo, stavolta a voce alta. E lui torna, ma dalla parte opposta, d’improvviso. La fa saltare da terra per lo spavento. In mano regge un ombrello aperto.
– Comunque la soluzione migliore è sempre l’indianino all’angolo, – continua come se non avesse mai finito la sua disamina, – cinquemila lire e il problema è risolto, anche se trattando si poteva scendere tranquillamente a quattro. Marco sorride, poi le porge l’ombrello.
– Grazie, – farfuglia lei interdetta.
Raccoglie le sue cose ed esce sotto la pioggia. Lui è lí davanti, ancora in balia dell’acqua, le riconsegna il pennarello; lei gli fa cenno di ripararsi sotto l’ombrello, ma lui scuote la testa, come a dire che ormai è inutile. I loro occhi si incontrano di nuovo. Passano alcuni secondi, ora c’è solo il rumore della pioggia e in lontananza la sirena di un’ambulanza. Anna comincia a provare imbarazzo per lui che se ne sta lí immobile continuando a inzupparsi. Rompe il silenzio.
– Io devo andare di qua, – dice indicando verso destra.
– Io di là, – ribatte lui indicando verso sinistra.
Senza aggiungere altro s’incamminano ognuno per la propria strada. Nemmeno un ciao, un a presto, un nome.
Pochi passi e Anna si blocca, si gira.
– Ehi…
Anche Marco si ferma e si volta.
– Quante possibilità ci sono? – domanda lei attraverso il muro d’acqua che li divide.
– Per cosa?
– Tu che sei così bravo con i numeri, quante possibilità ci sono che due persone che si incontrano per caso si incontrino una seconda volta?
– È una percentuale così bassa che statisticamente viene definita irrilevante.
– Non so neanche il tuo nome. Per ringraziarti di questo, – dice lei in un estremo tentativo, mettendo in evidenza l’ombrello.
– Marco, – dice lui. E dopo un ultimo sguardo riprende la sua strada, senza aggiungere nulla, senza più voltarsi, lasciando Anna sola in quel muro d’acqua che si abbatte su di lei e che, come un ossimoro, ha reso arido quell’incontro.
Lo guarda andar via, scomparire, stupita che non abbia raccolto il suo invito né le abbia chiesto a sua volta il nome. Perché tutta quella pantomima se poi se ne è andato così, come il fantasma dell’Opera? Possibile che fosse solo un matto geniale e che fosse lì veramente per determinare la percentuale di inzuppamento da pioggia? Non ha risposte, e crede che mai le avrà. Alza le spalle e va via.
Tra il beccheggiare degli alberi colpiti dall’intensità della tempesta, un aereo squarcia il cielo sopra Milano. Vola oltre le nuvole, rompe l’argine di quella cortina oscura carica d’acqua ed elettricità per trovare una stabilità negli strati più alti dell’atmosfera, là dove diventerà un puntino luminoso in movimento verso chissà quale meta. Anna solleva lo sguardo e vede quel corpo di metallo sorvolare lo spazio sopra la sua testa. Immagina le persone a bordo, immagina le loro vite. Prova a pensare agli sconosciuti stipati a mille metri di altezza, distanti da lei. E anche lei per loro non è che un puntino invisibile che cammina riparato da un ombrello, e sulla parte esterna di quell’ombrello esposta all’acqua c’è un numero di telefono scritto con un pennarello. Ma nessuno può vederlo. Soprattutto lei.
 
[da Supereroi. Servono i superpoteri per amarsi tutta la vita di Paolo Genovese, Einaudi Stile libero, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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