Sempre meno esiste in narrativa una rigida suddivisione di generi. Ne fa testo anche l’ultimo romanzo di Giovanni Grasso, “L’amore non lo vede nessuno” (Rizzoli), che può leggersi come un giallo o, molto di più, come una storia che indaga sul senso della vita, su ciò che chiamiamo amore, equivocandolo, talvolta, con variegate e carezzevoli forme di egotismo, fino a giungere ai cosiddetti amori malati. Già il titolo la dice lunga, appena scopri che quella affermazione un po’ enigmatica – amorem nemo videt – è pronunciata da sant’Agostino nel Sermone 34, laddove dice che l’amore, mosso dall’attrazione della bellezza (per sua natura caduca e meramente esteriore) debba fondarsi su qualcosa di più profondo, la sintonia interiore tra due esseri. Ma veniamo alla vicenda. La protagonista, Federica, muore improvvisamente in un incidente stradale. È una giovane e avvenente donna, originaria della provincia, che vive a Milano dove lavora all’ufficio comunicazione di una importante casa d’aste. In famiglia sanno poco della sua vita milanese, salvo che abita in un loft con terrazza panoramica vicino Porta Ticinese, veste abiti grandi firme, frequenta gente altolocata con soggiorni a Capri, Costa Azzurra, Cortina, Portofino, Parigi, New York in alberghi a cinque stelle, ville da sogno, yacht di lusso. I suoi familiari niente conoscono della sua vita affettiva, dell’esistenza o meno di legami sentimentali. La sorella Silvia spesso si era chiesta quale vita conducesse Federica, domanda che ora, nella circostanza di quella morte drammatica, si ripropone insistente. Due episodi cominciano a tormentarla. Durante il funerale vede entrare in chiesa “un uomo maturo, alto e distinto, che si stava facendo faticosamente largo tra la folla per avvicinarsi il più possibile al feretro ricoperto di fiori. [...] Non era uno del luogo, ma non sembrava nemmeno appartenere alla categoria azzimata dei ‘milanesi’. Non erano solo l’età o lo stile a distinguerlo. C’era in lui qualcosa di solenne, di ieratico. E, soprattutto, sul suo volto era dipinta una espressione sobria e composta, ma che rivelava un’indicibile pena interiore”. Ad arrovellare la mente di Silvia è inoltre un necrologio, apparso su un giornale locale, firmato cripticamente “P”, che suona come dettato da persona colta. Vi si definiva Federica “bella”, “fulgida”, “terribile”, mutuando i tre aggettivi dal libro più sublime che mai sia stato dedicato all’amore, il Cantico dei Cantici. È vero che due indizi non costituiscono una prova, ma rappresentano comunque una coincidenza su cui indagare. Peraltro lo stesso giornale del necrologio, nel riportare la notizia dell’incidente ne evidenziava l’incerta dinamica, arrivando a insinuare l’ipotesi di suicidio o di un boicottaggio. Silvia riesce a rintracciare il misterioso uomo apparso in chiesa e nuovamente intravisto dopo il funerale mentre deponeva peonie rosa sulla tomba di Federica, i suoi fiori preferiti. I due giungono a un patto: ogni martedì pomeriggio, per sessanta minuti esatti, si sarebbero incontrati in un bar di provincia, lontano da occhi indiscreti. Lui le avrebbe raccontato ogni particolare della propria relazione con Federica; lei, però, avrebbe mantenuto l’impegno a non fare alcuna indagine sull’identità del suo confidente. Ammesso che l’uomo stia raccontando la verità, ecco rivelarsi a Silvia quale demone possedesse la sorella, quello del narcisismo patologico. Carnefice e allo stesso tempo vittima di sé stessa, Federica avrebbe trascinato quell’uomo più maturo di lei nel gorgo di un sentimento assoluto, un vortice di seduzione, incongruenze, colpe e ingenuità. È così che, nel libro di Giovanni Grasso, quella dolorosa indagine di famiglia evolve, pagina dopo pagina, in una più universale riflessione sul senso della vita. Un giallo esistenziale, dunque, sull’amore e sul perdono. Poiché la domanda che infine sorge è: sappiamo più perdonare o perdonarci?
***
Nessuno, in famiglia, aveva l’esatta percezione di che tipo di vita Federica conducesse a Milano, distante dal paese solo cinquanta chilometri, ma anni luce dalle loro abitudini. Sapevano, quello sì, che viveva da sola in un grazioso loft con spettacolare terrazza non lontano da Porta Ticinese, che lavorava nell’ufficio comunicazione di una grande casa d’aste specializzata in antiquariato, che frequentava persone danarose, festaiole, e ambienti altolocati, che vestiva sempre alla moda, con capi di grande pregio. Nessuna confidenza avevano però mai ricevuto sulla vita privata, sulle sue compagnie, su possibili amori o partner. Era pur vero che Federica li metteva al corrente, con un certo compiacimento, dei suoi frequenti viaggi di piacere in località fascinose: Capri, Costa Azzurra, Cortina, Portofino, Parigi, New York. Ma non era dato di sapere a nessuno chi fossero i mai specificati «amici» che la ospitavano in ville da sogno, in alberghi a cinque stelle o su yacht di lusso. Qualche volta, Silvia si era sorpresa persino a fantasticare che la spregiudicata e sfuggente sorellina potesse condurre una doppia vita: antiquaria la mattina, escort la sera. Ma aveva sempre scacciato, con forza, questo sospetto, che le appariva ingiusto e inverosimile.
Era fatale che, dopo tanti anni di lontananza da casa, la figura di Federica fosse circondata da un’aura di impenetrabile mistero. Ora che la sorella era morta all’improvviso, il rimpianto più grande di Silvia era quello di non averle mai chiesto se avesse trovato autentici momenti di felicità nel corso della sua vita breve e turbolenta.
Silvia diede una carezza al volto del padre, asciugandogli le lacrime, quasi a rassicurarlo che il loro prossimo distacco sarebbe durato pochi minuti. Si alzò dal banco e si diresse verso l’altare. Don Tomasz aveva chiesto che un familiare leggesse la preghiera dei fedeli: il padre non era nelle condizioni di farcela e la scelta era inevitabilmente caduta su di lei.
Raggiunse il leggio e nella chiesa risuonò un lungo brusio, seguito da un improvviso e totale silenzio. A molti fece l’effetto di un fantasma: Silvia assomigliava talmente tanto alla sorella che spesso le scambiavano per gemelle. La giovane donna si schiarì la gola e con la voce che le tremava per l’emozione cominciò a leggere la prima intenzione. Levò gli occhi verso gli astanti, per invitarli a pronunciare l’«Ascoltaci, o Signore» di rito, che si alzò però solo dalle prime file. Tra quella gente i praticanti non dovevano essere poi molti.
Da quella posizione rialzata, Silvia poteva vedere tutta la chiesa e scorgere i volti dei presenti. Notò subito che, per una curiosa coincidenza, i conoscenti, i vicini di casa, i compagni di scuola, il popolo, insomma, di Civello e di Villa Guardia, avevano preso posto nei banchi alla sua destra, dietro le file dei parenti. Mentre il settore alla sua sinistra era occupato da persone, soprattutto giovani, a lei pressoché sconosciute ma, in qualche modo, riconoscibili: i colleghi e gli amici di Milano di Federica. Era, pensò Silvia, quasi una rappresentazione plastica della vita della sorella. Di qua il suo passato di semplice ragazza di provincia, con i familiari e gli amici d’infanzia; di là, rigorosamente separato, il suo universo cittadino, smagliante e tentacolare, costituito da relazioni affascinanti quanto effimere. In fondo, Federica, con la sua perenne insoddisfazione e il temperamento mutevole, non sembrava appartenere veramente né a un gruppo né all’altro.
Nel settore di sinistra pochi sembravano veramente commossi. Una smorfia luttuosa, uguale per tutti, tradiva l’artificiosità dei loro sentimenti. Silvia avvertì con chiarezza l’impressione sgradevole che la maggioranza di quelle persone vivesse la cerimonia di addio a Federica come un’incombenza da sbrigare al più presto, senza un briciolo di autentica partecipazione.
Il suo interesse fu, però, catturato dall’ingresso in chiesa di un uomo maturo, alto e distinto, che si stava facendo faticosamente largo tra la folla per avvicinarsi il più possibile al feretro ricoperto di fiori. Lo scrutò con attenzione: non l’aveva mai visto prima, sicuramente non era uno del luogo, ma non sembrava nemmeno appartenere alla categoria azzimata dei «milanesi». Non erano solo l’età o lo stile a distinguerlo. C’era in lui qualcosa di solenne, di ieratico. E, soprattutto, sul suo volto era dipinta una espressione sobria e composta, ma che rivelava un’indicibile pena interiore. Se avesse dovuto fare una classifica delle persone che, in quella chiesa, le apparivano più sinceramente addolorate, Silvia avrebbe sicuramente messo quello sconosciuto al secondo posto, davanti a lei persino, e subito dopo suo papà. Quell’uomo, ne era intimamente convinta, amava davvero sua sorella.
Abbassò di nuovo lo sguardo sul leggio e continuò a recitare le intenzioni:
«Per la pace. Ascoltaci, o Signore…
Per la giustizia. Ascoltaci, o Signore…
Per il papa. Ascoltaci, o Signore…
Per la Chiesa. Ascoltaci, o Signore…
Per i governanti. Ascoltaci, o Signore…Per l’anima della defunta, Ascoltaci, o Signore…
Per il dolore dei familiari. Ascoltaci, o Signore…».
Quel supplizio durante il quale aveva dovuto sforzarsi per trattenere le lacrime e rimanere compunta, si era per fortuna concluso. Riprese posto al primo banco, tornando a stringersi al padre. Tanti pensieri tristi le si affollavano nella testa, ma l’espressione dolente dell’uomo misterioso e affascinante, apparso come uno spettro in fondo alla chiesa, non l’abbandonava. Si ripromise di saperne di più. Poi il ricordo di Federica prese il sopravvento e dovette fare un grande sforzo per soffocare i singhiozzi che le squassavano il petto.
[da L’amore non lo vede nessuno di Giovanni Grasso, Rizzoli, 2024]
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