L’amore è una cosa semplice. Perciò è così difficile

Luigi Oliveto

06/11/2024

Il repertorio degli aggettivi che qualificano l’amore è alquanto ripetitivo: meraviglioso, stupendo, unico, grande (addirittura immenso). Poi, quando le cose volgono al peggio, viene subito in soccorso il dizionario dei contrari, con parole ugualmente eccessive, risapute e deglutite in pietose cure placebo. Insomma, il lessico amoroso manca di moderazione, di parole misurate, che, a pensarci bene, sarebbero più rassicuranti delle iperboli. Ma per esprimersi con equilibrio, in questo assetto devono trovarsi innanzitutto i sentimenti. Pare fornire qualche utile informazione al riguardo il romanzo “L’amore è una cosa semplice” di François Bégaudeau, edito da Salani per la traduzione di Francesco Bruno (il titolo francese è maggiormente stringato, quasi perentorio: “L’amour”). Vicenda esemplare di un amore che può dirsi tale, perché vissuto, giustappunto, come una cosa semplice. Jeanne e Jacques, i protagonisti, si sono conosciuti giovanissimi (erano gli inizi degli anni Settanta) e, sempre insieme, stanno invecchiando nella cittadina della provincia francese dalla quale non si sono mai mossi. A cominciare dai loro nomi di battesimo, sono due persone ‘ovvie’. Quando si adocchiano per la prima volta, lui segue il padre nell’attività di muratore, è appassionato di aeromodellismo; lei receptionist in un albergo, a volte aiuta anche la madre che fa le pulizie in una palestra, vagheggia amori e tiene un puntuale diario delle sue giornate su un’agenda La Redoute. La loro conoscenza avviene allorché Jacques, nelle sue funzioni di muratore, si trova impegnato nella ristrutturazione della sala ristorante dell’albergo dove lavora Jeanne. Niente di troppo conturbante, ma si piacciono, si fidanzano, e, avanti così, diventano una coppia. Una coppia per sempre. In poco più di cento pagine, con il ritmo e l’essenzialità di una sceneggiatura, Bégaudeau racconta proprio quel ‘per sempre’. Decenni di quotidianità condivisa in un normo-matrimonio: un figlio, il lavoro, qualche screzio d’ordinaria convivenza, la malattia, piccole crisi appena degne di questo nome. È uno di quei film (e non è escluso che lo diventi davvero) in cui non accade nulla, ma accadono semplicemente i giorni; che nulla non sono mai, in quanto gusci di esistenze, quand’anche minime, dove vita, sentimenti, le attese brevi del giorno dopo, chiedono conferma ad ogni alba del loro esserci. L’amore di Jeanne e Jacques non ha mai avuto pretese, ma da una stagione all’altra, nelle pochezze dei giorni comuni, è andato a combaciare sempre più con la vita, tout-court. Tanto che ora non saprebbero fare a meno l’uno dell’altra, pure nel gioco delle parti del ‘quando fai così non ti sopporto’. In questa ballata priva d’enfasi e sentimentalismi si raccontano le cose solo per ciò che sono e per ciò che in esse si compie di straordinario senza essere straordinario. Da qui la conclusione che l’amore è una cosa semplice. Perciò è così difficile.
 
***
 
La prima volta che Jeanne vede Pietro è nella palestra dove sua madre fa le pulizie.
Quando è il giorno di lavare le gradinate, la madre si porta dietro la figlia, quattro braccia ci vogliono tutte. Jeanne si guadagna venti franchi, è un piccolo complemento al salario che le danno all’albergo. E poi la tiene occupata.
Un mercoledì di febbraio, i loro orari coincidono con l’allenamento della squadra di pallacanestro.
Le suole di gomma fischiano sul parquet, i pantaloncini di nylon luccicano sotto i fari. Lui è lì in canottiera rossa, i capelli neri di media lunghezza cinti da una fascia di spugna. Straccio in mano, Jeanne si concentra sul legno verniciato della panca che sta strofinando per non guardare lui, ma è impossibile perché lui dall’alto dei suoi due metri domina il mondo. Non si vede che lui.
A un tratto un pallone rimbalza fino a Jeanne inginocchiata a lustrare per terra. Lei lo rilancia con un gesto goffo. Lui raccoglie la grossa palla ruvida con una sola mano, quando a Jeanne ne occorrerebbero tre. Lei pensa che non è proprio all’altezza. Neanche a pensarci.
Una sera, quando smonta, Jeanne annuncia che rincaserà a piedi. Sua madre trova l’idea assurda, dal canto suo dopo tre ore ritta a passare lo straccio sulla vetrina delle coppe non farebbe dieci metri a piedi. Per giunta comincia a piovigginare.
«La pioggia fa bene ai capelli».
Con un sospiro sua madre chiude la portiera della 3CV e parte, lasciando lì la scervellata.
Quando Pietro esce a sua volta dall’edificio bianco, la pioggia ha avuto il tempo di appiattirle lo chignon alto che è castano d’inverno e biondo d’estate. Comunque sia, lei non intende farsi vedere. Al contrario, arretra dietro un cassonetto, lontana dagli occhi della mezza dozzina di ragazzi che si scambiano battute, borsone sportivo sulla spalla. Dividendosi in tre macchine, si danno appuntamento da Émile. È il Bar della Posta ma tutti dicono da Émile, anche ora che Émile ha lasciato i comandi al figlio Joël dopo l’attacco di cuore. Per arrivare davanti al locale Jeanne taglia per l’abitato. Nascosta dall’appannatura della vetrata, lo individua in fondo al bancone, illuminato dal neon del bar. Riconosce Sylvie Vergnault che lo ascolta sorridendo estasiata. Per l’intero anno insieme in quinta elementare hanno preso in giro il maestro per l’alito che sapeva di vino. Questa sera Sylvie ha l’aria meno refrattaria alla bottiglia. Pietro prende un cubetto di ghiaccio dal suo bicchiere di Ricard e se lo infila tra i denti per farla ridere e la cosa funziona. Lui ha la parola tattile, fra un attimo la bacerà. Lei chiuderà gli occhi per assaporare al meglio il momento. Immaginerà di essere la sua ragazza, la sua fidanzata, sua moglie se lui glielo chiede. S’immaginerà la loro casa con dei balconi fioriti come sulla cartolina che la sua madrina le ha spedito dall’Austria. Le viene in mente che non ha nulla da mangiare. Corre verso la Coop, a quell’ora c’è soltanto quella aperta. Bernard che stava per tirare giù la saracinesca lascia che lei s’insinui fra gli scaffali da cui torna con una scatoletta monodose di stufato con fagioli.
Svuotandola col cucchiaio in una casseruola, decide di dimenticarlo. Fra di loro non andrà mai bene. A lei non piace il Ricard e nulla dice che a lui piacciano i balconi fioriti.
Una sera che lui si allontana dalla palestra a piedi, lei lo segue, la pioggerella sulle guance e i crampi allo stomaco per l’apprensione. Il pedinamento si conclude all’altezza di un piccolo edificio davanti al distributore di benzina. Pietro curva il lungo corpo per ruotare una chiave nella serratura. È proprio l’indirizzo che lei ha trovato sull’elenco telefonico in casa della madre. Dopo una manciata di minuti una finestra al secondo piano s’illumina. Un’ombra fugace scivola sul soffitto. Jeanne prende di mira il vetro con un sasso e scappa via di corsa.
Alla pagina del 27 aprile dell’agenda La Redoute 1971 dove lei annota le vicende della sua vita, scrive che il molare l’ha svegliata due volte, che il suo padrone di casa le ha annunciato un aumento dell’affitto, che un cliente dell’albergo ha imitato Fernand Raynaud, che dopo un’ora di attesa lei ha colto l’occasione di un idraulico che usciva dall’edificio per infilare una busta bianca nella cassetta a nome Maldini. All’interno, tre frasi a inchiostro turchese formulano una richiesta di incontro ma senza fornire le informazioni che lo renderebbero possibile. Il paesaggio montano in filigrana sulla carta da lettera non permette di indovinare nulla del mittente. D’altronde lei non è mai andata in montagna.
Nelle prime versioni, lei non firmava col suo nome, temendo che in palestra Pietro sentisse sua madre pronunciarlo e facesse due più due. Nella versione definitiva lei firma col proprio nome, sperando che in palestra Pietro senta sua madre pronunciarlo e faccia due più due. Già si pente di quell’audacia.
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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