Protagonista dell’ultimo romanzo di Simona Vinci, “L’altra casa” (Einaudi) è giustappunto una casa, una villa settecentesca nella campagna bolognese appartenuta al baritono Astorre Giacomelli ed ereditata poi da sua moglie Giuseppina Pasqua, la mezzosoprano prediletta da Giuseppe Verdi. Per successivi passaggi ereditari, tutti al femminile, la villa (nell’oggi della narrazione) è proprietà della signora Nissin, che, nonostante l’età avanzata, i costi di manutenzione, tasse e scarso utilizzo, di villa Giacomelli non riesce a disfarsene, perché “era stata come un sortilegio” ed “i ricordi più importanti della sua infanzia erano piantati lì, quelli belli e quelli brutti”. Sarà dunque lei, l’anziana e vivace proprietaria, ad accogliere in quella casa Maura, anch’essa cantante lirica, che insieme a Ursula Hirtsch, pianista, lì si tratterranno alcune settimane, con i rispettivi partner, per realizzare un evento musicale in omaggio a Verdi e Giuseppina Pasqua. Ma in contrappunto alle note verdiane andrà ad aprirsi anche lo spartito del mistero che abita quelle mura: “Immaginò che da qualche parte potesse esserci l'ingresso di un tunnel segreto che conduceva alle viscere della Terra, in una caverna oscura che conteneva il cuore grasso e pulsante della casa. Un cuore enorme, un cuore tripartito come quello dei rettili e collegato alle vene e ai capillari vegetali che percorrevano muri e tetto”. Così, secondo la migliore tradizione del romanzo gotico, le stanze di villa Giacomelli si fanno, per i quattro personaggi, sempre più avviluppanti e angoscianti. In una diffusa cupezza, emergono i loro conflitti interiori, avidità, smanie, frustrazioni. Sono posti in maniera inappellabile dinanzi a sé stessi per scoprirsi inadeguati, manchevoli. Un romanzo costruito sapientemente intrecciando notizie storiche a finzione letteraria, il vero e il visionario, il passato che si ripropone nel presente in un continuo gioco di rimandi e sovrapposizioni di significati. E ancora una volta ecco ‘le case’: che trattengono e restituiscono sempre qualcosa di chi vi ha vissuto.
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Era una villa estiva, le raccontò la signora, che veniva abitata, come le famiglie benestanti usavano nell’Ottocento, durante i periodi di vacanza per sfuggire all’afa cittadina. Forse in campagna non faceva ancora lo stesso caldo di adesso, forse c’erano meno zanzare o forse la gente a quei tempi riusciva a sopportare meglio sia l’uno che le altre, pensò Maura.
In ogni caso la villa, alla morte di Astorre Giacomelli, l’erede diretto, senza figli, era passata alla moglie e in seguito alla parte di famiglia di lei e, sempre per via femminile, era stata ereditata dalla signora Nissim, che per consuetudine aveva continuato, finché aveva potuto, a usufruirne nei periodi estivi e qualche altro giorno all’anno. D’altra parte viveva lontano, prima della pensione aveva avuto un mestiere impegnativo, un’altra vita, ma villa Giacomelli, diceva, era stata come un sortilegio, e non riusciva a immaginare di disfarsene. I ricordi più importanti della sua infanzia erano piantati lì, quelli belli e quelli brutti. Con sua madre Rina, sua nonna Carmelita e anche con quegli «altri» che avevano preso in affitto un’ala della casa e la trattavano come fosse roba loro.
– Non ho mai perdonato mia madre per aver messo qui dentro quei due, la preside e il professore, mi facevano paura, lui soprattutto, alto e grosso, severo, non rideva mai e dimenticava sempre di tirare lo sciacquone del bagno, forse lo faceva apposta. Credevo che fosse l’orco, che si trovasse qui perché voleva mangiarmi e che prima o poi ci sarebbe riuscito.
Gli occhi della signora erano puntati su un angolo della stanza, ma stava guardando indietro nel tempo, Maura non voleva interromperla, anche se era curiosa di domandarle chi fosse, quel professore, come si chiamasse, ma prima che potesse formulare la domanda, uno scuro si spalancò per una folata di vento e la stanza prese luce di colpo, come per una fiammata.
La signora Nissim girò la testa verso Maura, e per un attimo sembrò smarrita, poi ricominciò a parlare, passandosi le mani sul davanti del cardigan che indossava, a lisciare pieghe impercettibili e la domanda di Maura svanì.
La casa le costava ogni anno un occhio della testa. A parte il parco, curato dal custode per una cifra tutto sommato modica e d’affezione, dato che lui, sua moglie e la signora, da bambini, erano stati amici – pur mantenendo quella inevitabile distanza che era allora obbligatoria tra servi e padroni –, tutto il resto era molto oneroso.
A volte, sempre più spesso, a essere onesti, Nissim pensava di vendere: manutenzione, tasse, i problemi economici e pratici della gestione di una villa di quella portata, compresi gli interventi di restauro conservativo che negli anni avevano dovuto necessariamente essere eseguiti e che erano costati decine di migliaia di euro, la tormentavano.
La proprietà in sé con il parco e gli annessi valeva un patrimonio, ma era un valore virtuale perché un immobile del genere, al giorno d’oggi, chi avrebbe potuto permettersi di mantenerlo, e viverlo? L’avrebbe comprata un’immobiliare e probabilmente l’avrebbe sventrata per ricavarne degli appartamenti con gli infissi in alluminio anodizzato. La villa non era sotto la tutela dei beni culturali, forse perché la sua storia non era stata ancora raccontata da nessuno. Solo il giardino, quello sì, segnato come parco storico, sarebbe forse sopravvissuto. Possedere quel posto era un dissanguamento continuo. Eppure, nel momento in cui un possibile acquirente si faceva avanti lei si tirava indietro. Ripeteva a sé stessa che forse, una volta che fosse stata davvero vecchia, sarebbe finita a vivere i suoi giorni proprio lì, come aveva fatto la madre: lì c’era la sua infanzia, e certo, ovvio, la bellezza della casa in sé e per sé, ma poi gli anni passavano e lei non si decideva. Non si era mai sposata e non aveva avuto figli, quello che era stato il suo compagno per moltissimi anni, quando si erano conosciuti, era già sposato e con un figlio piccolo, ed entrambi non avevano voluto far torto a lui, il bambino, le raccontò Nissim, così avevano sempre mantenuto segreta la relazione, relegandola a pochi ritagli di tempo: che in fondo erano bastati.
Maura arrossì, e pensò al proprio egoismo, al fatto che lei, invece, al possibile dolore dei figli di Fred non ci aveva mai pensato.
– Poi è morto, – continuò la signora, – e comunque lui detestava la campagna, e non amava tanto nemmeno l’Italia, siamo venuti qui insieme solo un paio di volte, con la scusa di un congresso. La casa non gli era piaciuta: troppe finestre, troppe scale, troppa polvere. Non ho ancora fatto pace con la sua morte e non ho metabolizzato l’evidenza che qualsiasi gusto lui avesse in vita adesso non sono più obbligata a rispettarlo. A parte le sigarette, naturalmente.
Sfilò dalla tasca del cardigan il pacchetto di Muratti, poi ce lo rimise.
– Se avessi dei figli sarebbe diverso, sarebbero loro a doversene occupare e io potrei diventare decrepita in santa pace e morire, magari! Invece mi tocca vivere, perché sono io, l’ultima.
La signora la guardò dritto in faccia e a Maura sembrò di veder luccicare un principio di lacrima nella congiuntiva dell’occhio, ma probabilmente si trattò solo di un riflesso.
La stanza in cui l’aveva portata era buia, c’erano un grande letto bitorzoluto sul quale erano stese lenzuola bianche, un cassettone e uno specchio girevole coperto per metà da un telo. La signora le domandò di aprire gli scuri della finestra d’angolo che dava sul parco e Maura eseguì. Insieme contemplarono lo spicchio di giardino che si vedeva da lì e il prato sul quale correva un lungo tubo da irrigazione giallo.
La signora si accarezzò la guancia con una mano. Aveva una bellissima pelle, notò Maura, e doveva essere stata una ragazza molto carina. Le venne voglia di farle un complimento, così, per gentilezza, perché le signore anziane che sono state bellissime di solito restano un po’ vanitose, ma la signora la prevenne. – E non dirmi che non dimostro la mia età, perché io me la sento tutta, cosa volete saperne, voi giovani, di com’è essere vecchi?
Le piantò gli occhi negli occhi. – Lo sai quanti anni ho, io? – Maura scosse la testa, con un sorriso comprensivo.
– Ho passato gli ottanta, più o meno come Verdi quando frequentava la mia prozia e veniva a trovarla in questa casa, e dopo una vita di impegni che non mi hanno lasciato il tempo per ricamare fantasie, adesso mi sento sempre stanca e non vedo più il futuro. Anzi, sai una cosa? Non me ne importa niente. L’unico mio tormento è questa casa. Non so neanche bene il perché e questo mi fa stare ancora peggio. L’ho curata da medico, come i medici curano i corpi, ma non mi sono mai occupata della sua anima e della sua storia. Prima c’era sempre di mezzo mia madre, che ne era gelosa come di un amante. E poi non ne ho più avuto il tempo, e forse nemmeno il talento. Più che un rimpianto è un rimorso, e con i rimorsi si vive male, non credi?
Maura pensò ai propri, di rimorsi. Non ne aveva, ma ugualmente rispose. – Credo di sì.
La signora Nissim si sedette su una seggiola accanto a un piccolo secrétaire e fece cenno a Maura di prenderne una anche lei e avvicinarsi allo scrittoio, poi aprì l’involucro di stoffa che aveva estratto dal cassetto ed espose alla luce di un abat-jour un fascio di lettere autografe indirizzate da Giuseppe Verdi alla signora Giuseppina Pasqua.
[da L’altra casa di Simona Vinci, Einaudi, 2021]
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