L’Alta Fantasia. Nel romanzo di Pupi Avati tutta l’umanità di Dante

Luigi Oliveto

09/12/2021

In questo anno di celebrazioni dantesche ne abbiamo letti di libri sul Sommo: pagine belle, spesso erudite, talvolta risapute, di sussiegosa accademia o corriva spigliatezza. Ma in nessuna di queste avevamo trovato un’empatia con la vicenda esistenziale dell’Alighieri quale trasuda dal romanzo (che presto sarà anche un film) di Pupi Avati, intitolato “L’Alta Fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante” pubblicato da Solferino. Il regista-scrittore non ha infatti perseguito altri intenti se non voler cogliere l’umanità di Dante, il limio della pena che lo accompagnò lungo la sua esistenza, ancorché risarcito dalla gratificazione della scrittura e – per essa – dall’esaltante esperienza del sublime. Dice Avati in proposito: “Ho percorso il dolore che costella tutta la vita di Dante, dalla perdita della madre alla fine dei suoi giorni, quando egli si illude di poter essere riammesso a Firenze dopo aver scritto la Commedia: è questo dolore a dargli accesso alla dismisura poetica". Il romanzo inizia con la morte pressoché in solitudine del Poeta. Siamo nel 1321 a Ravenna, al convento delle clarisse di Santo Stefano degli Ulivi dove il poeta, esule ed ignorato, con il rantolo dell’ultimo respiro bisbiglia “Alla... fine... di tutti i disii...”. Questo riesce a sentire il figlio Iacopo che gli è vicino e questo riferisce allo sparuto gruppo dei presenti. Da quel momento l’albero di mele selvatiche del convento, che le monache chiamano “Albero del Paradiso”, cessa di dare frutti.
A distanza di trent’anni, Giovanni Boccaccio – notoriamente un cultore e divulgatore di Dante – viene incaricato di recarsi in quello stesso convento per adempiere a un singolare compito: incontrare la figlia dell’Alighieri, lì fattasi monaca con il nome di suor Beatrice, e consegnarle una somma di denaro a risarcimento dell’iniquo esilio inflitto al padre. Boccaccio si accolla così questa azione simbolicamente riparatoria. Lungo il viaggio constata con sofferenza quante avversità e ritrosie perdurino nel riconoscere la grandezza di Dante nella sua “superlativa immaginazione”. Ne ripensa la vita, ne ricava scoperte, vere e proprie rivelazioni. Una su tutte: come il dolore possa farsi strumento di conoscenza, creatività, ragione di poesia.
 
***
 
1321
Dal primo mattino Ravenna era stata bersaglio di una inclemente tempesta presagio della fine dell’estate. La grandine aveva devastato frutteti e fatto i vicoli torrenti. Tuttavia, malgrado quella pioggia cattiva, nella strada prospiciente una delle povere dimore dei Polentani, si ammassava una folla, lì per rispondere alle litanie del mortorio che un sacerdote blaterava da una delle finestrelle del sottotetto.
Dentro quella casa il più ineffabile dei poeti pativa la sua agonia.
Gli angeli di Dio vorticavano bassi, sfiorando i coppi, pronti a condurre la sua anima oltre quel cielo plumbeo. Il loro lucente piumaggio si rifletteva nell’acqua ferma del macero delle orrende nutrie.
Nel fumo di decine di candele due preti, su un altare di fortuna, si alternavano nel celebrare ininterrottamente le Messe dei defunti intanto che nelle sotterranee cucine sobbollivano nell’aceto lo scorfano e il cefalo per ristorare con un brodo di vigilia le nobildonne della Signoria di Ravenna e Bertinoro, lì convenute per assistere al trapasso.
Il giaciglio dell’agonizzante, ricavato da una sorta di cavità nel muro, era inumidito da colature d’acqua che Iacopo, il figlio più piccolo del morente, versava nell’illusione di dare sollievo alla grande febbre del genitore.
La povera luce permetteva di scorgerne il funereo pallore, lo sguardo riarso, le labbra mosse da un tremore perpetuo.
Su panche prossime al giaciglio, in una posizione di premura, sedevano i sodali del suo cenacolo ravennate: il notaio Dino Perini, il latinista Bernardo Canaccio, il medico Guido Vacchetta, il notaio Pietro Giardino e il più giovane, il rimatore Menghino Mezzani a Dante carissimo.
Guido Novello, signore di Ravenna, oltre ad aver provveduto a un cofano istoriato contenente la mano benedicente di Sant’Apollinare, veniva informato dal suo congiunto mastro Fiduccio dei Melotti che, contro la burrasca, faceva la spola con il palazzo.
Fu alla terza vigilia che all’improvviso il rantolo dell’agonizzante si fece parola: «Alla fine di tutti... alla fine di tutti...».
«Cosa dice?» chiese Iacopo al fratello Pietro.
«Mi sembra abbia detto “alla fine”.»
«Alla fine... di tutti...» farfugliava ancora il morente «alla fine di tutti...»
Iacopo si era inginocchiato accanto al padre avvicinando l’orecchio alle sue labbra bruciate che ripetevano quella giaculatoria senza senso: «Alla... fine... di tutti i disii...».
Il giovane si girò verso i presenti: «“Alla fine di tutti i disii...” mi sembra dica “alla fine di tutti i disii”...» concluse sgomento.
E si ebbe all’improvviso il silenzio delle preci e della pioggia e nel macero delle nutrie e dei rospi si rifletté il muto volo degli angeli verso l’infinito.
Era la notte del 14 settembre del 1321, la notte in cui a Ravenna moriva Dante Alighieri.
E io ch’al fine di tutt’i disii
appropinquava, si com’io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
 
[da L’Alta Fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante di Pupi Avati, Solferino, 2021]
tti di libri sul Sommo: pagine belle, spesso erudite, talvolta risapute, di sussiegosa accademia o corriva spigliatezza. Ma in nessuna di queste avevamo trovato un’empatia con la vicenda esistenziale dell’Alighieri quale trasuda dal romanzo (che presto sarà anche un film) di Pupi Avati, intitolato “L’Alta Fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante” pubblicato da Solferino. Il regista-scrittore non ha infatti perseguito altri intenti se non voler cogliere l’umanità di Dante, il limio della pena che lo accompagnò lungo la sua esistenza, ancorché risarcito dalla gratificazione della scrittura e – per essa – dall’esaltante esperienza del sublime. Dice Avati in proposito: “Ho percorso il dolore che costella tutta la vita di Dante, dalla perdita della madre alla fine dei suoi giorni, quando egli si illude di poter essere riammesso a Firenze dopo aver scritto la Commedia: è questo dolore a dargli accesso alla dismisura poetica". Il romanzo inizia con la morte pressoché in solitudine del Poeta. Siamo nel 1321 a Ravenna, al convento delle clarisse di Santo Stefano degli Ulivi dove il poeta, esule ed ignorato, con il rantolo dell’ultimo respiro bisbiglia “Alla... fine... di tutti i disii...”. Questo riesce a sentire il figlio Iacopo che gli è vicino e questo riferisce allo sparuto gruppo dei presenti. Da quel momento l’albero di mele selvatiche del convento, che le monache chiamano “Albero del Paradiso”, cessa di dare frutti.
A distanza di trent’anni, Giovanni Boccaccio – notoriamente un cultore e divulgatore di Dante – viene incaricato di recarsi in quello stesso convento per adempiere a un singolare compito: incontrare la figlia dell’Alighieri, lì fattasi monaca con il nome di suor Beatrice, e consegnarle una somma di denaro a risarcimento dell’iniquo esilio inflitto al padre. Boccaccio si accolla così questa azione simbolicamente riparatoria. Lungo il viaggio constata con sofferenza quante avversità e ritrosie perdurino nel riconoscere la grandezza di Dante nella sua “superlativa immaginazione”. Ne ripensa la vita, ne ricava scoperte, vere e proprie rivelazioni. Una su tutte: come il dolore possa farsi strumento di conoscenza, creatività, ragione di poesia.
 
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1321
Dal primo mattino Ravenna era stata bersaglio di una inclemente tempesta presagio della fine dell’estate. La grandine aveva devastato frutteti e fatto i vicoli torrenti. Tuttavia, malgrado quella pioggia cattiva, nella strada prospiciente una delle povere dimore dei Polentani, si ammassava una folla, lì per rispondere alle litanie del mortorio che un sacerdote blaterava da una delle finestrelle del sottotetto.
Dentro quella casa il più ineffabile dei poeti pativa la sua agonia.
Gli angeli di Dio vorticavano bassi, sfiorando i coppi, pronti a condurre la sua anima oltre quel cielo plumbeo. Il loro lucente piumaggio si rifletteva nell’acqua ferma del macero delle orrende nutrie.
Nel fumo di decine di candele due preti, su un altare di fortuna, si alternavano nel celebrare ininterrottamente le Messe dei defunti intanto che nelle sotterranee cucine sobbollivano nell’aceto lo scorfano e il cefalo per ristorare con un brodo di vigilia le nobildonne della Signoria di Ravenna e Bertinoro, lì convenute per assistere al trapasso.
Il giaciglio dell’agonizzante, ricavato da una sorta di cavità nel muro, era inumidito da colature d’acqua che Iacopo, il figlio più piccolo del morente, versava nell’illusione di dare sollievo alla grande febbre del genitore.
La povera luce permetteva di scorgerne il funereo pallore, lo sguardo riarso, le labbra mosse da un tremore perpetuo.
Su panche prossime al giaciglio, in una posizione di premura, sedevano i sodali del suo cenacolo ravennate: il notaio Dino Perini, il latinista Bernardo Canaccio, il medico Guido Vacchetta, il notaio Pietro Giardino e il più giovane, il rimatore Menghino Mezzani a Dante carissimo.
Guido Novello, signore di Ravenna, oltre ad aver provveduto a un cofano istoriato contenente la mano benedicente di Sant’Apollinare, veniva informato dal suo congiunto mastro Fiduccio dei Melotti che, contro la burrasca, faceva la spola con il palazzo.
Fu alla terza vigilia che all’improvviso il rantolo dell’agonizzante si fece parola: «Alla fine di tutti... alla fine di tutti...».
«Cosa dice?» chiese Iacopo al fratello Pietro.
«Mi sembra abbia detto “alla fine”.»
«Alla fine... di tutti...» farfugliava ancora il morente «alla fine di tutti...»
Iacopo si era inginocchiato accanto al padre avvicinando l’orecchio alle sue labbra bruciate che ripetevano quella giaculatoria senza senso: «Alla... fine... di tutti i disii...».
Il giovane si girò verso i presenti: «“Alla fine di tutti i disii...” mi sembra dica “alla fine di tutti i disii”...» concluse sgomento.
E si ebbe all’improvviso il silenzio delle preci e della pioggia e nel macero delle nutrie e dei rospi si rifletté il muto volo degli angeli verso l’infinito.
Era la notte del 14 settembre del 1321, la notte in cui a Ravenna moriva Dante Alighieri.
E io ch’al fine di tutt’i disii
appropinquava, si com’io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
 
[da L’Alta Fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante di Pupi Avati, Solferino, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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