Kamel Daoud – giornalista e scrittore nato ad Algeri, già vincitore del Goncourt 2015 con il romanzo d’esordio “Il caso Meursault” – crede talmente alla forza della scrittura da inventarsi una storia stupenda. Quella che narra nel suo secondo libro “Zabor o I salmi” (La nave di Teseo) dove il bambino protagonista scopre di avere un dono straordinario: se scrive tiene lontana la morte degli altri (e per certi aspetti la propria) al punto che quanti trovano racconto nelle pagine del suo quaderno, acquistano miracolosamente nuovi anni di vita. Il piccolo Zabor è orfano di madre, rifiutato dalla nuova famiglia creata dal padre, cresce in solitudine con la zia e il nonno che vivono in un villaggio prossimo al deserto. Conduce una strana vita: dorme di giorno e la notte girovaga per le strade. Unica consolazione i libri polverosi presi in prestito alla biblioteca. Attraverso quei libri si costruisce un mondo interiore, una ragione di vita. Sempre grazie alla lettura impara la bellezza dello scrivere, fino a scoprire la stupefacente prerogativa di poter salvare esseri umani dall’imminenza della morte coinvolgendoli semplicemente nel racconto di una delle sue storie (“Se dimenticavo una persona quella persona il giorno dopo moriva. Semplicissimo. L’ho verificato in tante occasioni. È la mia maledizione muta. La legge della mia vita che nessuno immagina. Lo dico: quando io dimentico, la morte ricorda”). La casa ai margini del deserto diventa così pellegrinaggio di persone che con carta, penna, cibo vi giungono per chiedere a Zabor (sorta di generosa Sherazad) un supplemento di vita. Il problema di coscienza insorge per lui il giorno in cui arrivano i perfidi fratellastri a dirgli che il padre (non meno infame di loro) sta morendo. Occorre che Zabor intervenga. Non se la sente di dire no. Va al capezzale del vecchio, ma, anche per il poco tempo a disposizione, si accorge che il proprio dono sta come vanificandosi. Dinanzi a colui che gli ha negato amore e vicinanza, Zabor rivive i drammi e tutto ciò che quel mancato affetto ha generato in lui, compresa la facoltà di cui può disporre. Anche in quella circostanza? Il romanzo di Kamel Daoud è dunque un’ode alla parola scritta, ai libri che ne racchiudono la forza salvifica: “Scrivere è l’unico stratagemma efficace contro la morte. Gli uomini hanno provato con la preghiera, le medicine, la magia, i versetti ripetuti a litania, l’immobilità, ma penso di essere l’unico ad aver trovato la soluzione: scrivere”.
***
Mi hanno chiamato dopo la preghiera dell’Icha, bussando alla porta di casa. La notte era ancora giovane e faceva luccicare con finta negligenza le prime stelle sopra gli alberi appena intiepiditi. Si udivano in lontananza motori di automobili, e anche voci di vicini. Il primogenito del vecchio, Abdel, nato da un amore deforme, era lì, con il capo chino poggiato in precario equilibrio sul corpo asciutto, imbacuccato in una djellaba. Lo conosco da più di quanto egli possa immaginare: tutta la sua forza la ricava da una rabbia costante contro il mondo del villaggio a valle. Perché questa rabbia? Forse perché si sa colpevole, usurpatore, ladro di qualcosa di cui ha dimenticato il nome. (Sto divagando.)
[…]
Sapevo che, per finto pudore e vero disprezzo, non sarebbe mai venuto a bussare alla nostra porta, tranne il giorno della fine del mondo. E anche in quel caso si sarebbe limitato, come all’inizio di questa notte, a urlare il nostro nome di famiglia. Alla maniera antica. Ecco dunque arrivata la mia ora! L’ora del destino. “Che sarà come mille anni del vostro contare”, dice il Libro sacro. La notte in cui un dio scende fino al cielo più accessibile alla voce e alla preghiera, l’unico che ci sia consentito vedere da vivi, e a volte risponde. Quella scena me l’ero proiettata nella mente tante di quelle volte che adesso la sua imminenza mi provocava una vertigine, annullava la forza di gravità. Abdel e i suoi fratelli dovevano essere allo stremo, per rivolgersi a me dopo anni di risate sprezzanti e di sputi al solo sentire il mio nome. Stavo leggendo nella mia stanza un vecchio libro sul senso delle decorazioni dei nostri antichi tappeti, quando all’improvviso, subito dopo aver udito il mio nome ripetuto dietro i muri come un latrato, ho avuto le palpitazioni e ho sentito un peso nell’incavo del petto. Non era la prima volta che mi si veniva a chiamare in piena notte (il male è da sempre notturno, la notte è un’orchessa chi mangia i propri figli e racconta loro storie), ma stavolta la voce era quella dell’avversità e il momento era così grave che dovevo fare appello a tutte le mie forze. Era da anni che l’aspettavo. Sì. “Scrivi!” ha tuonato l’Angelo nella mia stanza rosa.
[…]
Sono uscito dopo aver preso il mio materiale contro la morte e mi sono incamminato in silenzio dietro Abdel. Hadjer mi ha seguito con lo sguardo, restando a lungo immobile sulla soglia. Ho capito che esitava ad accompagnarmi: temeva per me, ma in sua assenza non c’è nessuno che possa sorvegliare la nostra casa e i nostri pochi beni. Forse pensava che la sua intrusione nel consesso di fratelli rischiasse di compromettere la mia possibilità di esservi finalmente ammesso. C’era rancore nell’aria, ma anche nervosismo e paura. Di sera, le vetrine dei negozi chiusi danno al villaggio l’aspetto di una creatura affetta da cecità. Non ci sono più case, i volti e le finestre diventano palpebre. Ho camminato alla cieca. Il cielo, sfumato e diafano, sembrava un palmo aperto su sassolini brillanti. “Poi, volgi due volte il tuo sguardo: tornerà a te umiliato e confuso”, dice il Libro sacro.
Alla fine i fratellastri erano tutti lì. In fondo alla stradina, imboscati come ladri di bestiame, mischiati gli uni agli altri dalle ombre degli angoli. Nella notte, ho sentito il loro odore di gregge e pelle di bestia. Odore che da noi è profumo di soldi, segno di ricchezza e radici. Non li ho salutati, appena un cenno della testa, perché dietro di me la finestra di Djemila era socchiusa sull’interno scuro di una vecchia casa coloniale. Per via del caldo, senza dubbio. O dell’insonnia. La mia voce fastidiosa ha una sua leggenda, e volevo risparmiarmi la consueta smorfia della mia tribù. Conosco ogni volto, ho annotato i loro lineamenti nei miei quaderni, le loro abitudini e i loro tic. Mi hanno seguito, camminando dietro di me come per sottolineare la propria diffidenza, preoccupati di non mostrarsi mischiati con il mio commercio. Abdel in testa, energico e nervoso, intento a fare il capo come gli ha insegnato la madre. Intuivo i suoi pensieri: questa notte può sembrare la mia vendetta ma è anche la possibilità della mia umiliazione finale. Non sa leggere né scrivere ma ha l’istinto malvagio di chi soffre di non saperlo fare.
“Come stanno i tuoi figli?” mi ha chiesto bisbigliando senza guardarmi, mentre ci inerpicavamo sull’ultima stradella verso la collina. Sa che non ne ho. I suoi fratelli non hanno reagito alla frecciata. Salvo la vita a tutti loro da anni, a uno a uno, e loro lo ignorano. (Perdonali, Signore, perché non sanno! Il loro quaderno s’intitolava Storia dei tredici. Per via della loro lega torva, simile a una cospirazione in una locanda medievale. Succede durante una sosta, un uomo racconta. Ognuno dei dodici fratelli ha il nome di un pianeta che ruota nel villaggio senza fare niente.) Dodici oziosi che quando siedono in cerchio vicino alla moschea, all’imbrunire, danno l’impressione che l’universo non serva a niente, che sia solo un gioco di biglie e nomi.
Abbiamo quindi attraversato la strada principale del villaggio per poi svoltare verso l’alto passando dietro la moschea del centro, dove abitano l’imam e i recitatori. Da lì la salita diventa ripida. Le case con le tegole rosse ci seguivano senza dire niente. Sui marciapiedi erano sparsi cartoni di latte vuoti e cartacce. Niente luna, nonostante il cielo l’aspettasse come una medaglia. Per qualche istante, una vecchia brezza ha tentato di smuovere rami e cartacce, ma si è subito stancata ed è ricaduta in foglie morte e secche. I muri sono rimasti lì, ad accompagnarci addossati gli uni agli altri.
[…]
La malattia del vecchio non era più un segreto da mesi, ma gli c’era voluta un’eternità prima di genuflettersi. Per orgoglio, giacché non poteva accettarlo, lui che era sopravvissuto ai coloni, alla fame e all’esilio. Era un uomo che ripeteva a ogni piè sospinto che Dio, in sogno, gli aveva promesso la ricchezza e innumerevoli greggi. Uomo terrorizzato dal vuoto, che tentava di scongiurare con l’abbondanza. Non volevo provare affetto o rimorso. Tantomeno adesso. L’inchiostro dev’essere freddo e scuro per meglio descrivere e scrivere. L’ora del vecchio era suonata e la sua foglia sarebbe caduta (“poiché il cosmo è un albero, le anime sono uccelli e le vite sono foglie, i frutti sono stelle e il tempo è un autunno coscienzioso”, dice il cane nella mia testa). Sì.
[da Zabor o I salmi di Kamel Doaud, traduzione di Sergio Claudio Perrone, La nave di Teseo, 2019]
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