Jeanine Cummins, trovarsi migranti all’improvviso

Luigi Oliveto

05/03/2020

Nell’odierna America di Trump, il recente romanzo di Jeanine Cummins, “Il sale della terra”, ha sollevato un gran putiferio. Discussioni sui giornali, nei talk show, solite odiose scemenze sui social, minacce fisiche all’autrice, tanto da costringere l’editore a sospendere il tour di presentazioni del libro. La colpa dell’autrice? Quella di aver raccontato, se pur in forma di romanzo, il dramma dei migranti messicani. Protagonisti del libro sono Lydia, proprietaria di una libreria ad Acapulco, e suo figlio Luca di otto anni, costretti a fuggire dopo che, durante la festa di compleanno della nipote e cuginetta, ben sedici membri della loro famiglia sono stati uccisi da un commando che ha fatto irruzione in casa della nonna. Mandante della strage il capo di una banda di narcos (un criminale con velleità letterarie) che ha inteso così vendicarsi per un articolo scritto dal marito giornalista di Lydia. Dal massacro si salvano solo lei e il bambino, perché riescono a chiudersi nel bagno. Ma è chiaro che, a quel punto, anche loro saranno ricercati per essere uccisi. Lydia, così, decide all’istante di scappare per raggiungere un posto sicuro, gli Stati Uniti. Bisogna, però, evitare le strade più battute e i normali mezzi di trasporto. Da qui la decisione di seguire la via dei migranti, con tutti i rischi e le sofferenze che questo comporta, come gettarsi da un cavalcavia per saltare sulla Bestia (il treno merci dove si soffoca da quanti disperati vi sono stipati, persino aggrappati ai vagoni); poi attraversare il deserto in balìa di mercenari senza scrupoli, condividendo con i compagni di viaggio (alcuni ferocemente egoisti, altri disponibili a spartire più umanamente il peso della disperazione) un destino incerto. A sorreggerli c’è l’ostinata speranza di raggiungere il confine, la terra promessa, los Estados Unidos. Mamma e figlio divengono, quindi, migranti, clandestini, fuggitivi in cerca di una terra sicura. Mai Lydia avrebbe pensato di potersi trovare, un giorno, nei panni di questi disperati verso i quali, tante volte, aveva provato slanci di solidarietà, compassione, indignazione morale e politica. E sono proprio queste le istanze che il romanzo suscita fino a prevalere sulla finzione letteraria, sulla tensione degna di un thriller che, senza cedimenti, tiene allertato il lettore. Sì, ciò che si ricava dalle pagine della Cummins è tanto sdegno, appena mitigato dagli struggenti versi di Pablo Neruda posti in esergo al romanzo: “Era la sete e la fame, e tu fosti la / frutta. / Era il dolore e la rovina, e tu fosti il / miracolo.”
 
***
 
Lydia fa due giri intorno al Maggiolino arancione, guarda dentro dai finestrini, esamina le gomme, il serbatoio, la parte di telaio che riesce a vedere chinandosi senza toccare niente. Sembra tutto uguale a come l’hanno lasciato; non che in quel momento ci avesse fatto molto caso. Fa un passo indietro e incrocia le braccia sul petto. Non ha nessuna intenzione di accendere la macchina, ma deve almeno aprirla per recuperare le sue cose. La sente come una necessità impellente, ma la sua mente è inchiodata sul qui e ora e non si rende conto che quello che vuole sono dei ricordi.
Sbirciando dal finestrino vede lo zaino di Sebastián ai piedi del sedile del passeggero, i propri occhiali da sole che luccicano sul cruscotto, la felpa blu e gialla di Luca gettata sul sedile posteriore. È troppo pericoloso tornare a casa, nel posto dove vivono tutti insieme. Deve fare in fretta, portare Luca via da lì. Per un breve istante Lydia pensa che, se c’è una bomba in macchina, sarebbe più caritatevole prendere Luca con sé, chiamarlo prima di aprire la portiera, ma l’istinto materno ha la meglio su quell’idea macabra.
Così avvicina la chiave con la mano tremante, cercando di tenerla ferma con l’altra mano. Guarda Luca, che alza il pollice in segno di incoraggiamento. Non ce l’hanno messa una bomba, dice tra sé. Una bomba sarebbe troppo, dopo tutte quelle pallottole. Infila la chiave nella portiera. Un respiro profondo. Due. La gira. Clac. Lo scatto della serratura la fa quasi crollare. Ma poi, silenzio. Nessun ticchettio, nessun bip, nessuno spostamento d’aria letale. Chiude gli occhi, si gira verso Luca, alza anche lei il pollice. Apre la portiera cigolante e comincia a frugare nell’abitacolo. Cosa le serve? Si interrompe, la confusione la paralizza per un attimo. Non sta succedendo davvero, pensa. Ha la mente tesa, alterata. Pensa a quando suo padre è morto e sua madre ha camminato in tondo per settimane, dal lavello al frigorifero, dal frigorifero al lavello. Stava lì con la mano sul rubinetto e si dimenticava di aprirlo. Lydia non può entrare in un circolo vizioso come quello: è pericoloso. Devono muoversi.
Ecco lo zaino di Sebastián. Una delle cose da prendere. Ora come ora, Lydia può solo eseguire i compiti che le si presentano davanti. Poi ci sarà tempo per cominciare a riflettere su come tutto questo sia accaduto, sul perché sia accaduto. Apre lo zaino, tira fuori un thermos, gli occhiali di Sebastián, le chiavi del suo ufficio, le cuffie, tre taccuini e un pugno di biro, un registratore portatile, il tesserino da giornalista, e lascia tutto sul sedile del passeggero. Tiene soltanto il tablet con il caricatore, ma lo spegne prima di rimetterlo nello zaino ormai vuoto. Non capisce come funziona il gps incorporato, ma di sicuro non vuole farsi rintracciare. Prende gli occhiali da sole dal cruscotto e se li infila con un gesto rabbioso, rischiando quasi di conficcarsi un’astina nell’occhio. Spinge avanti il sedile per guardare dietro. Sul pavimento della macchina ci sono le scarpe buone di Luca, che le ha abbandonate lì quando si è messo le scarpe da ginnastica per giocare a fútbol con Adrián. Oddio, Adrián, pensa Lydia, e la fessura nel petto diventa più profonda, come se le avessero piantato un’ascia nello sterno. Chiude forte gli occhi, solo per un momento, e si costringe a respirare. Prende le scarpe di Luca e le mette nello zaino. Sul sedile posteriore c’è anche il berretto rosso dei New York Yankees di suo marito. Lo afferra, scende dalla macchina e lo dà a Luca, che se lo mette. Nel bagagliaio trova il cardigan marrone di Sebastián e lo infila nel borsone. Ci sono anche un pallone da basket (lo lascia lì) e una maglietta sporca (la tiene). Chiude il bagagliaio con un colpo violento e torna verso il sedile del passeggero per scegliere un taccuino, ancora senza avere il coraggio di chiedersi perché lo fa: per avere un ricordo della sua calligrafia. Ne prende uno a caso, lo mette nello zaino e chiude la macchina.
Luca la raggiunge prima che lei lo chiami con un cenno. Mio figlio non è più lo stesso, pensa. La guarda in un modo diverso, interpreta i suoi desideri senza che gli si dica niente.
“Dove andiamo, Mami?”
Lydia lo osserva con la coda dell’occhio. Otto anni. Deve superare questa tragedia e trovare la forza di salvare il salvabile. Gli dà un bacio sulla testa e si incamminano, allontanandosi dai giornalisti, dalla macchina arancione, dalla casa dell’abuela, dalla loro vita distrutta.
“Non lo so, mijo,” risponde. “Vedremo. Ci aspetta una bella avventura.”
“Come nei film?”
“Sì, mijo. Come nei film.”
Si infila lo zaino e stringe gli spallacci, poi mette anche il borsone a tracolla. Percorrono vari isolati verso nord, quindi girano a sinistra in direzione della spiaggia e infine tornano verso sud, perché Lydia non riesce a decidersi: non sa se andare in un posto pieno di turisti o se invece è meglio cercare di sparire del tutto. Si guarda spesso alla spalle, studia le persone a bordo delle auto di passaggio, serra la presa sulla mano di Luca. Davanti a un cancello aperto, un cane meticcio si mette ad abbaiare, scatta in avanti, tenta di mordere. Una donna con un camicione a fiori esce di casa per sgridarlo, ma prima che faccia in tempo ad avvicinarsi Lydia lo prende a calci con ferocia, senza provare il minimo senso di colpa. La donna comincia a strillare, ma Lydia va avanti, tenendo il figlio per mano.
Luca raddrizza la visiera del berretto degli Yankees, che gli sta largo. Il bordo interno del cappello è impregnato del sudore di Papi, così quando lo tira di qua o di là gli arrivano piccole folate dell’odore di suo padre. Prende a farlo di continuo, ma poi gli viene in mente che l’odore potrebbe finire e allora, per paura di consumarlo tutto, smette di toccare il cappello. Dopo un bel po’ scorgono un autobus e decidono di salire a bordo.
È sabato ed è metà pomeriggio, perciò l’autobus non è affollato. Luca è contento di sedersi, finché non si rende conto che sono state le gambe, muovendosi sotto di lui per portare il suo piccolo peso in giro per le strade della città, a impedire all’orrore di schiacciarlo come minaccia di fare adesso. Non appena è seduto accanto a Mami sul sedile di plastica blu, con le gambe stanche penzoloni, comincia a pensare. Comincia a tremare. Mami lo cinge con un braccio e lo stringe forte.
 
[da Il sale della terra di Jeanine Cummins, trad. di Francesca Pe’, Feltrinelli]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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