Atteso a gloria dai cultori di Kent Haruf, ecco in libreria “La strada di casa”, edito in Italia da NN per la traduzione di Fabio Cremonesi. In ordine cronologico è il secondo romanzo pubblicato da Haruf (1990); precede la maggior nota ‘trilogia della pianura’, ma già ne anticipa l’universo narrativo (l’immaginaria cittadina di Holt nelle distese rurali del Colorado), la narrazione svelta e precisa che sarà la cifra distintiva dello scrittore americano. Subito in apertura leggiamo: “Questo libro è per chi cerca punte di frecce nei campi, per chi crede alla promessa di I love you in a thousand ways di Lefty Frizzell, per chi balla tutta la notte senza mai arrendersi alla stanchezza, e per chi torna a casa per vedere le sue montagne, anche se non ci sono, anche se sono soltanto una tenue linea frastagliata all’orizzonte.” A rivedere le sue montagne che non ci sono è Jack Burdette, il quale torna a Holt dopo otto anni di latitanza. Fuggito per aver combinato qualcosa di molto brutto, riappare una sera a bordo di una spocchiosa Cadillac rossa targata California. A raccontarne la storia è Pat Arbuckle, direttore dell'Holt Mercury, vecchio amico di Jack, che di lui conosce la tempestosa adolescenza, gli amori (una lunga storia con Wanda Jo Evans; poi un matrimonio lampo con Jessie), l’accusa di furto o anche qualcosa di più terribile, e quindi la fuga dalla città e dalla famiglia. Gli abitanti di Holt non hanno dimenticato e non gradiscono affatto quel ritorno, si fanno cattivi, violenti, vestono i panni del giustiziere. La città piomba in un clima di rancorosa inquietudine, e ne sa qualcosa lo stesso Pat. Nello svolgersi delle vicende, protagonista, però, non è solo Jack, ma anche sua moglie Jessie, donna tenace e di grande orgoglio; l’opposto del marito. Cosicché l’autore affida a loro due – spesso per contrapposizione – lo scandaglio dei tanti sentimenti – dai più ignobili ai più densi di umanità – che scandiscono la trama. E non di meno è personaggio imprescindibile quella provincia americana che a sera, con le strade deserte, i lampioni al mercurio, si fa ancora più piccola e incarognita, struggente e crudele. Come l’anima dei suoi abitanti.
***
Alla fine Jack Burdette tornò a Holt. Nessuno di noi se l’aspettava più. Erano otto anni che se n’era andato e per tutto quel tempo nessuno aveva saputo niente di lui. Persino la polizia aveva smesso di cercarlo. Avevano ricostruito i suoi movimenti fino in California, ma dopo il suo arrivo a Los Angeles se l’erano perso e a un certo punto avevano rinunciato. Quindi nell’autunno del 1985, per quanto se ne sapeva, Burdette era ancora là. Era ancora in California, e noi ci eravamo quasi dimenticati di lui.
Poi un sabato di inizio novembre, nel pomeriggio, ricomparve a Holt.
Era al volante di una Cadillac rossa. Non era nuova; l’aveva comprata poco dopo essersene andato, quando ancora aveva soldi da spendere. Rimaneva sempre un’automobile pacchiana, di quelle su cui ci si aspetterebbe di vedere un pappone di Denver o un nuovo ricco di Casper, Wyoming, che ha fatto i soldi con il petrolio. Tutta quella vernice rossa – dello stesso colore di una ferita aperta, per dire, o del rossetto sulle labbra di una donna il sabato sera – splendeva, scintillava sotto il sole, come se avesse trascorso tutto il giorno a lucidarla prima di mostrarcela.
Guidò quella macchina, un affronto, un oltraggio per tutta la città se avessimo saputo fin da subito chi c’era al volante, attraversò Holt lungo la Highway 34, poi fece inversione e tornò indietro, si diresse a nord su Main Street, passando accanto al serbatoio dell’acqua e alla banca e all’ufficio postale e al cinema Holt, e alla fine parcheggiò in pieno centro, e non scese. Per il resto del pomeriggio e buona parte della serata rimase lì come se stesse aspettando qualcosa: aspettava fumando e sputando per terra attraverso il finestrino abbassato, e solo di tanto di tanto si spostava da una parte all’altra del sedile anteriore per alleviare il fastidio del volante contro la pancia. Immagino pensasse che qualcuno gli avrebbe rivolto la parola. Ma nessuno lo fece. Non subito. Sembrava che nessuno lo riconoscesse. Per almeno un’ora i suoi ex concittadini si limitarono a passargli davanti mentre andavano a fare acquisti, fuori e dentro i negozi come ogni sabato pomeriggio, senza fermarsi a parlare, senza neanche rallentare abbastanza da vedere di chi fosse quella Cadillac.
Però alla fine a qualcuno venne in mente di chiamare lo sceriffo. Quel qualcuno era Ralph Bird, il proprietario del Men’s Store, un negozio di vestiti da uomo.
Verso le quattro e mezzo di quel pomeriggio, Ralph Bird guardò fuori dalla vetrina del Men’s Store e si accorse della Cadillac rossa dall’altro lato della strada, di fronte alla taverna. All’inizio non ci fece troppo caso. La stagione della caccia al fagiano era cominciata e comunque in città c’erano sempre automobili bizzarre. Mezz’ora dopo, però, guardando di nuovo dall’altra parte della strada, si accorse che la macchina era ancora lì, con lo stesso uomo che aveva già notato prima seduto al volante, e questo lo turbò. Si mise a osservare l’automobile. Mai vista prima. Eppure dopo un minuto o due, ebbe la sensazione che in quell’uomo ci fosse qualcosa di familiare. Si voltò per chiamare sua moglie dal retro del negozio.
Ehi, disse. Vieni qui un attimo.
Cosa c’è?
Vieni qui.
Hannah Bird, che stava lavorando tra file di scaffali in legno, uscì dal magazzino. Era alta e magra, con i capelli tinti di rosso scuro. Si fermò sulla soglia, scostandoseli dagli occhi.
Cosa c’è? chiese. Sto cercando di mettere via quelle scatole di scarpe.
Guarda là, disse Bird.
Là dove?
Quella macchina. Lo vedi il tizio che c’è dentro?
Hannah si avvicinò alla vetrina. Lo vedo.
Che ne pensi?
Non ne penso niente.
Guarda meglio.
La donna guardò di nuovo. Proprio in quel momento, l’uomo nella macchina scintillante voltò la testa per sputare, e Hannah Bird lo vide di profilo. Lo riconobbe subito.
Non fare niente, Ralph, disse. Lascialo in pace.
Certo, osservò Bird. Mi pareva che fosse lui.
Però non lo devi scocciare. Non hai idea di quello che potrebbe fare quell’uomo.
Mi deve ancora dei soldi.
Non mi interessa. Lascia che se ne occupi la polizia.
Ralph Bird non le diede retta. Hannah gli posò una mano sul braccio come se volesse tenerlo sotto controllo, trattenerlo a forza, ma lui gliela spazzò via come fosse un pelucco. Aprì la porta e uscì.
Ralph, gridò lei. Torna qui, Ralph.
Fuori aveva iniziato a fare un freddo pungente. Agli angoli delle strade si erano accese le lampade al mercurio e sull’asfalto si stava alzando una lieve brezza. Bird osservò Main Street a destra e sinistra, era quasi deserta; poi scese dal marciapiede e attraversò la strada dirigendosi verso la Cadillac rossa di Burdette. Quando la raggiunse, si fermò per un momento a studiare la targa. L’auto era immatricolata in California. Poi costeggiò la fiancata fino alla portiera del guidatore. Guardò dentro. Burdette lo stava a sua volta fissando dal finestrino aperto.
Burdette aveva un brutto aspetto. Negli otto anni in cui né Bird né nessun altro di noi l’aveva visto, era cambiato in peggio. Era diventato grasso, obeso, ormai sformato, eccessivo; era calvo e la carne pendeva dal suo corpo come sugna. Sembrava che si fosse nutrito solo di torte alla crema e bistecche di maiale e poi avesse smesso del tutto di mangiare, avrebbe osservato Bird tempo dopo. Ma era pur sempre Jack Burdette.
Figlio di puttana, attaccò Bird. Perché sei tornato qui?
Sei proprio tu, Bird?
Sì. Sono io.
Ti ho visto nello specchietto. Ma ero abbastanza sicuro che non mi avresti rivolto la parola. Pensavo volessi solo ammirare la macchina.
E invece ti parlo, rispose Bird. E parlerò anche con Bud Sealy.
Burdette fissò Bird, poi fece una risata aspra, sonora. Il suo modo di ridere non era cambiato; era la stessa esplosione improvvisa che tutti ricordavamo.
D’accordo, replicò Bird. Prego. Divertiti. Ti resta ancora qualche minuto.
Perché? Hai già detto a Bud Sealy che sono qui?
No. Ma sto per farlo.
Fai pure. Io non vado da nessuna parte. E puoi dire a Bud... Burdette parve riflettere. Sputò di nuovo fuori dal finestrino, stavolta ai piedi di Bird. Puoi dirgli che non vedo l’ora di incontrarlo.
Figlio di puttana, esclamò Bird. Maledetto...
Poi Ralph Bird si interruppe di colpo. Si allontanò dalla macchina e si incamminò verso l’incrocio. Si voltò indietro, poi proseguì di buon passo. Quando raggiunse l’incrocio stava correndo. Svoltò in Second Street dirigendosi a est, verso il tribunale, un isolato più in là. Continuò a correre con le braccia che andavano avanti e indietro, un elegante ometto di mezz’età in giacca e cravatta che correva sul marciapiede buio, superando vetrine e facciate di mattoni, poi attraversò Albany Street e salì i gradini del tribunale.
In cima alla scalinata la luce dell’ingresso principale illuminava il pavimento attraverso le porte a vetri, che però erano chiuse, e in un attimo di panico Bird prese a bussare rumorosamente. Si rese conto che era sabato pomeriggio tardi. Quindi si voltò, si precipitò giù dalle scale e riprese a correre lungo l’alto muro di mattoni del tribunale; girò l’angolo e seguendo il marciapiede raggiunse un’altra porta sormontata da una luce rossa. Questa non era chiusa a chiave. Bird la spalancò e corse giù per una rampa di scale, nel seminterrato. Nel primo ufficio dopo l’atrio trovò Dale Willard, il vicesceriffo della contea di Holt, seduto con i piedi sulla scrivania. Si stava tagliando le unghie.
[da La strada di casa di Kent Haruf, trad. di Fabio Cremonesi, NN, 2020]
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