Io, Monna Lisa. Quante cose ha da raccontare la Gioconda

Luigi Oliveto

12/05/2022

Dalla sua prigione di vetro le arriva appena il brusio della gente che la guarda senza mai vederla veramente. Soprattutto senza ascoltare le molte cose che lei vorrebbe dire. E questo riesce finalmente a fare nel fantasioso libro di Natasha Solomons “Io, Monna Lisa” (Neri Pozza). Perché Monna Lisa, la Gioconda, è sopravvissuta di gran lunga e di vita propria a Lisa del Giocondo. Più Leonardo le dava un volto, e più lei diveniva creatura di per sé, molto più che mera immagine di una graziosa petulante moglie di un mercante di sete. “Non presi vita d’un tratto, ma come fumo che si accumula in una stanza, un soffio dopo l’altro. Il suo respiro sulla guancia mentre il pennello mi infondeva la vita”. Così l’anima dell’una innamorò quella dell’altro. Emozionante fu il momento in cui lei cominciò a parlare (Poi, con mio grande stupore, compresi che quella era la mia voce. Potevo parlare. Non lo sapevo). Leonardo resta sbalordito, si china fino a porre i suoi occhi in quelli di lei, le sfiora il labbro con il pennello chiedendole chi fosse e se davvero fosse lì. La risposta è: “sono tua”. Eravamo a Firenze nel 1504 e comincia così una storia d’amore, ma non solo; che di vicissitudini ne ha attraversate Monna Lisa. Anni di continui spostamenti insieme al suo Leonardo, la separazione per la morte di lui, i diversi ambigui uomini che non hanno resistito al suo fascino. Bramata, sottratta, offesa, sballottata in mezzo agli sconquassi della Storia, testimone di inimicizie e subdoli giochi di potere. Insomma, cinque secoli di vita che non sono stati una passeggiata. Dal fervore dello studio fiorentino di Leonardo ai fasti rinascimentali di Fontainebleau, alla reggia – che più reggia non si può – di Versailles, ai fragori della Rivoluzione, fino agli odierni selfie dove il sorriso di Monna Lisa stravince sempre su quello dei beoti che le si pongono innanzi. Natasha Solomons ha così raccolto il lungo racconto di Monna Lisa, ha prestato ascolto a quella voce che affiocata da lastre antiproiettile invano dice: “ascoltatemi adesso”.
 
***
 
Louvre, Parigi, oggi
All’inizio rimasi in ascolto nel buio. Quand’ero nuova non avevo occhi e non potevo distinguere la notte dal giorno. Però scoprii che mi piaceva la musica – la gioia improvvisa della lira da braccio e del flauto – e il rauco chiacchiericcio dello studio. Il solletico del carboncino. Il calore costante dei suoi polpastrelli, tutte cose che mi stimolavano verso l’esistenza, una velatura dopo l’altra. Non presi vita d’un tratto, ma come fumo che si accumula in una stanza, un soffio dopo l’altro. Il suo respiro sulla guancia mentre il pennello mi infondeva la vita. Presi coscienza come se stessi risalendo dalle profondità del mare più insondabile, freddo e scuro. Percepivo le voci come l’attrito delle onde sulle rocce. Ma era sempre la sua voce quella che ascoltavo. Lui mi sussurrava. Mi dava vita con la sua forza di volontà, mi blandiva per farmi emergere dalla tavola di pioppo. Fino ad allora ero soddisfatta nell’oscurità, ancora non sapevo che esistesse la luce.
Per prima venne la mia faccia, prese forma tra gli strati sovrapposti di biacca. Mi faceva affiorare come tonalità d’ombra e blocchi di velature più scure. Fui coperta e ricoperta più volte da uno strato di imprimitura, trasparente e lieve come ali di farfalla. La mia pelle era spettrale anziché rosea, così aggiunse un tocco di rosso e giallo lacca, e mi diede profondità con terra d’ombra bruciata. Le mie mani e il vestito e il velo e i capelli non erano altro che un pensiero a carboncino, in attesa di esistere. C’erano i primi tratti a inchiostro del cartone preparatorio. La punta aguzza dell’ago colse i miei nuovi contorni, pronti per lo spolvero di carbone. Le sue dita massaggiarono la polvere da ricalco nei forellini della carta. Ero un contorno, un’immagine riflessa su legno. Una collezione di parti. Mento. Seno. Dito. Naso. E con i miei occhi nuovi mi guardai attorno. L’attività del giorno e l’immobilità della notte. E per tutto questo mi meravigliai. Le stelle ammiccavano dietro la finestra, luminose come le candele dello studio: forse un pittore ultraterreno, il Leonardo dei cieli, lavorava a una nuova costellazione commissionata dagli dèi.
Mentre mi dipingeva, mi dava spalle e labbra e creava la cascata dei miei capelli e la trasparenza del velo, Leonardo mi parlava.
«La pittura eccelle sulla musica perché essa non muore immediatamente dopo la sua creazione. Il suono del liuto, per quanto dolce, è subito svanito mentre tu invece resti in essere».
Ascoltavo affascinata quelle confidenze mentre qualcosa cominciava e rimescolarsi dentro di me… i primi semi dell’amore.
All’inizio fissavo Leonardo, rapita e silenziosa. Poi un giorno mi confidò i segreti del cielo, dicendomi: «La gente crede che ci sia un uomo sulla luna, ma sono soltanto mari. La sua superficie è ricoperta d’acqua salata».
Sentii una voce che poneva la domanda che desideravo fargli.
«Davvero non c’è alcun uomo sulla luna?» chiese la voce.
Poi, con mio grande stupore, compresi che quella era la mia voce. Potevo parlare. Non lo sapevo.
Leonardo mi fissò, sbalordito. Si chinò fino ad avere gli occhi allo stesso livello dei miei. Mi sfiorò il labbro con il pennello.
«Sei davvero lì?» mi chiese.
«Sì, sono qui» risposi.
«Chi sei?» chiese, osservandomi meravigliato.
Ricambiai il suo sguardo e risposi: «Sono tua».
[…]
Ero più Lisa e Leonardo che me stessa. Ma poco alla volta, pennellata dopo pennellata, sono diventata io. La mia anima era mia. Mia era la curiosità con cui mi guardavo attorno. Vedevo i limoni che scintillavano nei loro vasi allineati sotto il loggiato. La polvere sulle foglie. Musici sudati che suonavano affinché Lisa continuasse a sorridere. Perché io continuassi a sorridere. E così non eravamo più la stessa cosa, lei e io. Ringrazio per questo la Madonna e tutti i santi del paradiso. Il mio sorriso non è il suo. Non lo è mai stato. A lei bisognava sempre spiegare il senso di ogni battuta. La povera, buona, diligente Lisa.
Adesso, mentre osservo il mondo dalla mia prigione di vetro al Louvre, sono trascorsi secoli da quando l’ho vista per l’ultima volta. Lei giace nella sua tomba, io nella mia bara di vetro. Chi è incarcerato di solito ha commesso un crimine. Non io. Un palazzo dorato, per quanto splendido o colmo di silenziosi tesori, resta comunque una prigione se non lo si può lasciare. I visitatori del Louvre si mettono in coda per ore per guardarmi a bocca aperta senza vedermi. Ormai sono un punto fermo delle guide di viaggi e del pacchetto tour d’Europa tutto incluso. È vero che invecchiando sono diventata bisbetica e malinconica di bile nera, ma le maniere dei turisti sono deprecabili. Si lagnano fra loro perché sono piccola o perché il mio sorriso sembra più una smorfia. Un tempo dovevo rivaleggiare con centinaia d’altri dipinti in un’indegna camerata di quadri, dimenticata da tutti se non per quei pochi che venivano a cercarmi. Invece oggi sono dappertutto, e così nessuno riesce a vedermi nemmeno quando mi ha davanti. Venite tutti per fermarvi di fronte a me, per rendermi omaggio per quei pochi secondi che vi sono concessi prima che i miei carcerieri vi sollecitino a procedere oltre. Eppure scegliete di immortalare sul vostro telefono il momento in cui non mi guardate e mi date le spalle.
Bene, se non volete guardarmi, quantomeno non cercate l’altra Lisa. Io sono reale. È questo il segreto. Sinceramente, lei non vale lo sforzo. La pia e logorroica moglie di un mercante vanesio e borioso. Lei è morta. Le sue ossa perdute, ormai polvere in un convento. Sentite invece la mia storia. Le mie avventure meritano l’ascolto. Ho vissuto molte vite e sono stata amata da imperatori, re e ladri. Sono sopravvissuta a rapimenti e aggressioni. A una rivoluzione e due guerre mondiali. Ma questa è anche una storia d’amore. E la storia di ciò che siamo disposti a fare per coloro che amiamo.
Fin dal principio io sono stata sua, perché come Prometeo ha infuso in me il fuoco della vita. All’inizio tutto questo non mi spaventava perché non capivo cos’ero, e che come insieme di pigmenti su una tavola ero diversa da un uomo in carne e ossa e sangue. Non sapevo cosa significava essere mortale né che lui doveva morire. Sapevo solo di amarlo, e che con il tempo anche lui sarebbe giunto ad amare me. Abbiamo trascorso molti anni insieme e lui mi ha confidato i suoi molti segreti. Le sue gelosie. L’inquietudine della sua ambizione.
E alla fine ci siamo resi immortali a vicenda, lui e io. Eppure adesso lui se n’è andato e io osservo in silenzio, sola. Le pareti della cella saranno anche di vetro, ma è un vetro a prova di proiettile, spesso due centimetri e sigillato dal mondo esterno. Non sento altro che un vago brusio indistinto e soffocato. Nessuno cerca più di parlare con me. E anche se chiamo, nessuno mi ascolta.
Ascoltatemi, adesso.
 
[da Io, Monna Lisa di Natasha Solomons, trad. di Laura Prandino, Neri Pozza, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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