Io, Jack e Dio. L’insolito triangolo raccontato da Andrea De Carlo

Luigi Oliveto

15/12/2022

Insolito triangolo quello formato da “Io, Jack e Dio”, i protagonisti dell’ultimo romanzo di Andrea De Carlo (La nave di Teseo). Una lei (Mila, che è l’Io narrante), un lui (il Jack in questione) e quella terza presenza tanto astratta quanto invasiva. È una storia condotta sul confine incerto tra amicizia e amore, uno di quegli amori comunque fedeli per tutta la vita, perché rimasti incompiuti (o forse è questa la vera compiutezza?) senza gli esiti fin troppo prevedibili di un rapporto uomo/donna. Erano ragazzini quando Mila e Jack trascorrevano le vacanze estive a Lungamira, sulla costa adriatica, a casa delle rispettive nonne. Lì si erano conosciuti, frequentati anno dopo anno. Nel tempo sospeso di quelle estati era nata un’amicizia che sarebbe divenuta irrinunciabile. Valgano in proposito le parole di Mila: "Nel giro di qualche anno non c'era stato più dubbio che Jack e io fossimo diventati totalmente necessari uno all'altra: eravamo così diversi e così simili, così complici e così complementari". Le loro vite avevano poi preso, come è naturale, strade diverse, anche geograficamente distanti, ma mai interrompendo fervide corrispondenze, a testimonianza di una fedeltà, di un sincero bisogno l’uno dell’altra. Accade, però, che a un certo punto Jack pare essersi eclissato nel nulla. Trascorrono ben sette anni, prima che ricomparisca sorprendentemente vestito da frate. È entrato a far parte di una congregazione il cui approccio alla fede si caratterizza per il grande rigore intellettuale, per un’esegesi delle Scritture spinta fin sulla soglia del dubbio, per una ricerca della Verità che rischia la vertigine del Nulla. E qui sta la novità del romanzo di Andrea De Carlo: ai temi dell’amore e dell’amicizia, più volte proposti nelle sue storie, aggiunge ora l’aspetto religioso, azzarda la sfida di parlare di Dio. Il tutto ponendosi in un’ottica e in una sensibilità femminile, poiché è una donna a raccontare situazioni, sentimenti, incongruenze, ricerca di senso.
 
***
Forse qualcuno di voi ricorderà la tragedia in deltaplano del giugno scorso, quando Federico “Brusko” Bruscandoli si è lanciato insieme a una passeggera dal monte Carma nell’Appennino marchigiano senza essersi assicurato con il moschettone, e dopo essere rimasto aggrappato alla barra per una novantina di disperati secondi è precipitato nel vuoto da trecentocinquanta metri, lasciando la passeggera appesa a sbatacchiare senza il minimo controllo, totalmente convinta di essere sul punto di sfracellarsi anche lei? Be’, la passeggera ero io.
Brusko l’avevo incontrato sei mesi prima, subito dopo un suo concerto al Sabbiaccia Rock Festival di Pestigi, quando la mia amica Sara che aveva un mezzo flirt con il batterista mi aveva convinta a seguirla nel backstage. Appena salite per la scaletta e passate dietro il telone nero Brusko era sbucato davanti a noi con un asciugamano intorno al collo, il kajal colato sugli zigomi, la camicia bianca incollata al petto dal sudore. Mi aveva agguantata per un polso e aveva detto: “Ehi, noi due ci conosciamo da sempre!” Gli ero scoppiata a ridere in faccia, per la prepotenza del gesto e la sfacciataggine della frase, l’insistenza invadente dello sguardo. Non era affatto vero che ci conoscevamo, ma mi era capitato di vederlo a distanza tante volte da ragazzina e più avanti, mentre da aspirante piccolo rocker lungamirese diventava un rocker di media dimensione e poi una megastar in grado di riempire stadi interi. Sul retro di quel palco vibrava ancora tutto per l’adrenalina del concerto e continuava a stringermi e fissarmi dritto negli occhi, e dopo avere estorto il mio nome aveva gridato: “Mila? Mi-la? Ma ti rendi conto, Dio bono?! Le mie due note preferite! Mu-si-ca pu-ra!” Aveva cercato di sbaciucchiarmi come un bambino fuori misura, aveva proclamato ammirazione senza limiti per la mia leggera inflessione francese e per i miei capelli e le mie orecchie e il mio naso e le mie labbra, mi aveva martellata senza tregua per avere il mio numero di telefono. Un po’ mi intrigava, è inutile negarlo adesso: aveva una vitalità fuori dal comune, una giocosità, un’ingordigia di sensazioni così distante dall’intellettualismo estenuato di Mathieu, il curatore museale parigino con il quale avevo avuto una relazione tormentosa e frustrante di nove anni. A volte il cuore si lascia ingannare da semplici contrapposizioni, in barba alla ragione e all’esperienza. Non ero mai stata un’ammiratrice di Brusko, ma avevo in mente un paio di sue canzoni non brutte, e il suo stile vocale raspato e gutturale sembrava riflettere una vita vissuta senza troppe cautele. Comunque, mi ricordavo di aver letto o sentito che era sposato e con un paio di figli piccoli, e l’ultima cosa al mondo che volevo era ritrovarmi a fare l’amante della rockstar alla ricerca di nuovi specchi in cui riflettersi. Così appena lui si era girato per lamentarsi di qualcosa con il tecnico del suono ero sgusciata via nella confusione di gesti e voci, l’avevo lasciato tra le sue fan felici di avere finalmente campo libero per scimmieggiare.
Però Brusko il giorno dopo mi aveva telefonato in un tono sorprendentemente sobrio, per scusarsi del suo modo di fare la sera prima, dirmi che i miei occhi rivelavano un’interiorità straordinariamente pura, condividere alcune considerazioni sul cambiamento climatico e sull’instabilità geopolitica del mondo, sugli aspetti rassicuranti ed esasperanti della vita in provincia. Ero rimasta colpita a scoprire un suo lato inatteso, e mi aveva lusingata l’idea che un uomo con una vasta scelta di possibili partner femminili fosse interessato proprio a me.
Il giorno dopo ancora Brusko si era presentato al cancello di casa mia con un mazzo gigante di rose che io avevo provato a respingere con forza finché lui non aveva assunto un’espressione da cane bastonato, al che lo avevo invitato a entrare. Mentre cercavo negli armadi della cucina un vaso abbastanza grande gli avevo detto per difesa preventiva che lo sapevo sposato e padre di famiglia; lui mi aveva risposto con grande prontezza che in realtà era separato in casa, dissociato, danneggiato, disperato. D’improvviso si era messo a piangere e singhiozzare nel modo più sconcertante, mi aveva abbracciata e stretta forte con un tremito impossibile da ignorare. E tac, in un istante mi era scattata la sindrome di Florence Nightingale, lo stupido istinto femminile che ti convince di essere l’unica donna al mondo in grado di aggiustare un uomo totalmente inaggiustabile.
La mia storia con Brusko era iniziata così, tra diffidenze e slanci, attrazioni, dichiarazioni, ritrattazioni, sparizioni, contraddizioni senza fine. 
[…]
Non potevo certo dire di conoscerlo a fondo, perché non ci eravamo ancora svelati del tutto l’uno all’altra, e anche nei nostri più appassionati momenti di intimità mi sembrava di percepire un po’ di recita da parte sua. Però era un uomo più divertente di quelli con cui ero stata, e insieme a lui provavo un misto di svago bambinesco, imbarazzo, sorpresa, desolazione, eccitazione, scoramento, voglia di spingermi oltre la mia zona di sicurezza e superare i miei limiti. L’idea di lanciarmi da grandi altezze appesa a un aggeggio pilotato da un uomo di cui non mi fidavo del tutto mi spaventava e mi attraeva, ma soprattutto non volevo fare la figura dell’illustratrice precisina e prudentina che si preclude la possibilità di provare le sensazioni entusiasmanti che Brusko descriveva in canzoni come Stràppati da terra La rabbia di Icaro. Così avevo finito per accettare la sfida e dirgli di sì, con il cuore già scompensato all’idea. Lui aveva gridato: “E brava Mila! Vedrai se non mi ringrazierai!
Vedrai se non ti verrà subito la smania di rifarlo, Dio bono!” Il mattino dopo era passato a prendermi con la sua Porsche gialla in uno stato di sovraeccitazione quasi certamente accentuata da qualche sostanza e mi aveva fatto un minicorso preparatorio gesticolando non stop mentre guidava su per i tornanti del Carma, con la musica incalzante di una sua demo in sottofondo. Aveva continuato a darmi istruzioni sul pianoro di lancio tra gli sguardi divertiti e ammiccanti degli altri deltaplanisti, era diventato ancora più frenetico quando io avevo cominciato ad avere ripensamenti di fronte alla prospettiva sempre più imminente di saltare nel vuoto senza alcuna possibilità di controllo, totalmente in sua balìa.
 
[da Io, Jack e Dio di Andrea De Carlo, La nave di Teseo, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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