Proviamo a dirla così: “Immagini in una pagina bianca” di Massimiliano Bellavista (Betti Editrice) è un libro a cui piace essere letto. Comunque lo si consideri – romanzo storico, poliziesco, sceneggiatura di serie Tv, piccolo saggio (simulato in racconto) sullo scrivere e il fotografare – è un libro che sa farsi leggere da cima a fondo. La vicenda si svolge alternando due piani temporali (gli anni Quaranta della Seconda Guerra Mondiale e della Liberazione, gli anni Ottanta) fino a quando, verso l’epilogo, personaggi, fatti, rivelazioni convergono nell’oggi. Il protagonista principale, frutto di pura fantasia, si chiama Edward Rossi (origini italiane), fotoreporter al seguito dell’esercito americano durante la Seconda Guerra Mondiale. È lui la voce narrante, impegnato a scrivere quanto ha vissuto in quarant’anni della propria vita affatto monotona. Glielo ha chiesto insistentemente il suo editore, ed ora Edward accusa fatica, perché “le parole ci mettono molto di più della luce a imprimersi sulla pellicola di un foglio bianco, decisamente meno sensibile come ho imparato a mie spese in questi ultimi mesi […]. Cosa non facile per un fotografo, la cui vita si basa su frazioni di secondo.” La guerra che Bellavista fa raccontare a Edward è quella drammaticamente vera del 1939-45 che ridusse l’Europa a un enorme cumulo di macerie. Ugualmente vera è la figura dell’altro fotografo che, pur in ruolo secondario, incontriamo nel romanzo: l’americano Carl Mydans, pioniere del fotoreportage, leggenda della fotografia, in giro per l’Europa e l’Asia a documentare morti e sopravvivenze del secondo conflitto. All’autore è piaciuto immaginare che Mydans avesse come amico e collaboratore il fittizio (ma credibile) Edward Rossi. Il quale ben oltre che un fotoreporter diventa nella sua trasferta italiana. Viene prima aggregato al reparto degli interpreti fotografici, coloro che sapevano ‘leggere’ le foto scattate ad alta quota dagli aerei ricognitori. Poi, sotto falsa identità, infiltrato nelle truppe tedesche per monitorare lo stato dei rifugi delle opere d’arte, inviarne notizie agli Alleati, ed evitare così che, con i bombardamenti, capolavori inestimabili fossero distrutti, danneggiati, rubati. In questo speciale ruolo di agente segreto si ritrova a Firenze durante l’occupazione nazista, ed a Siena subito dopo la Liberazione. Il nucleo del romanzo è proprio il tema delle opere d’arte, anch’esse umiliate e oltraggiate dalla guerra, e dunque sballottate da un luogo all’altro per salvarle. Nel libro di Bellavista, su un’opera in particolare si restringe la trama, un disegno di Raffaello, trafugato nel 1944, noto come ‘Madonna del Velo’. È attorno a questo preziosissimo pezzo di carta che la vicenda assume decisamente la forma del giallo con l’immancabile commissario di polizia (che indossa l’impermeabile e la necessaria dose di cinismo) qui alle prese con un caso di traffico di opere d’arte su scala internazionale, peraltro collegato a gruppi terroristici tedeschi. Va da sé che la nostra sinossi debba ora fermarsi. Al lettore non può essere negato il sobbalzo finale dell’inatteso, nonché il piacere di riconsiderare tutta la tessitura del racconto, il pertinace intreccio di storia, arte, fiction; e pure il preludio a una incompiuta storia d’amore, nata sotto i numi dell’arte e anch’essa, come molti tesori d’arte, annientata dalla guerra.
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Posso farvi una domanda? Che cos’è per voi una fotografia?
In che rapporto sta con la vostra esistenza? E con la vostra storia?
Se possedete una soffitta o una cantina, cercate i vostri album di famiglia. Invariabilmente, ne troverete alcuni perfettamente tenuti, grossomodo fino agli anni Novanta. Più andrete indietro in
quelle pagine e più noterete che la carta si fa pesante, solida. Le foto di prima, quelle in bianco e nero, stanno a quelle di oggi come gli incunaboli del Quattrocento in pergamena stanno ai moderni
libri a stampa.
Se poi avrete la pazienza di togliere la polvere e aprire gli scatoloni, c’è sempre un album che è rimasto riempito a metà, incompleto. Quello è il momento della grande e silenziosa transizione. Da quel momento, i ricordi sono diventati digitali, impalpabili come i pensieri.
Sempre in cantina o in soffitta, se non le avete già gettate durante qualche trasloco, troverete delle riviste illustrate, spesso di grande formato, ricchissime di immagini. Anche questo flusso di foto e documenti si interrompe, ma un po’ prima, di solito verso la fine degli anni Settanta. Dopo, sono lentamente passate di moda. “Life”, rivista che ha fatto la storia del fotogiornalismo con tirature di milioni e milioni di copie, ha chiuso nel 1972.
Mi chiamo Edward Rossi e credo proprio di avere qualcosa da raccontare a questo proposito, perché sono stato uno di quelli che faceva quelle foto e teneva quegli album. Forse la mia firma è
presente in molte delle vostre cantine, sotto la scatola dove tenete gli scarponi da sci o la cesta dei vecchi giocattoli.
Non mi interessa se siete dei lettori abituali e neppure se vi piacciono le storie. Per leggere quanto segue non è nemmeno necessario che vi piaccia la fotografia, o che ne siate esperti. Basta solo che siate interessati alla vita degli altri. Ovvero il requisito minimo per far parte dell’umanità.
Adesso che avete letto le prime righe, potete anche leggere il resto.
Tanto, che avete da perdere?
Devo scrivere un diario prima che si trasformi in un libro di memorie. O viceversa. Per la verità non lo so ancora.
In fondo, almeno così dice Robert Duffy, che sarebbe il mio editore, imbracciare una penna anziché una 35 millimetri è solo una trascurabile differenza tecnica, un allungamento dei tempi di posa. Dice che non ho più il fisico per fare le foto che mi hanno reso famoso, ma posso ancora scrivere.
Però si sbaglia, scrivere è molto più stancante per un vecchio. Comunque, vorrei che stabiliste voi se Robert ha fatto un affare o meno a commissionarmi questo libro.
Le parole ci mettono molto di più della luce a imprimersi sulla pellicola di un foglio bianco, decisamente meno sensibile come ho imparato a mie spese in questi ultimi mesi, quindi devo avere meno fretta e più metodo. Cosa non facile per un fotografo, la cui vita si basa su frazioni di secondo.
È che io penso veloce, io penso con gli occhi. A questo devo il mio successo. No, questo suona davvero banale ed esagerato, diciamo meglio che in questo modo mi sono guadagnato il pane e anche qualcosa da metterci sopra.
Il tempo per me ha un significato molto simile a quello che possiede per un nuotatore o un centometrista: sono le frazioni, i centesimi o i millesimi di secondo che contano davvero. Al mondo
oggi ci sono più macchine da scrivere che persone: ma esistono pochi fotografi di cui il grande pubblico ricorda il nome, come del resto ci sono centinaia di miliardi di penne, ma solo pochi scrittori per cui siete disposti ad andare in libreria e acquistare il libro.
Soffermarmi per minuti o a volte ore su una pagina mi trasmette la paura, anzi, la quasi certezza che la realtà che mi propongo di catturare con le mie parole sia già sfuggita altrove o mutata in un’altra cosa, comunque irrimediabilmente diversa da prima. La spinta a chiudere l’otturatore della mia mente è forte, ma una pagina incompleta equivale ad una foto mal riuscita. Sì, sono decisamente un pesce fuor d’acqua in letteratura.
Come se non bastasse, da qualche tempo a questa parte noto che, davanti alla pagina bianca mi tremano le mani precisamente come mi accadeva certe volte in guerra: un tremore quasi impercettibile che parte dalla punta delle dita. Sul fronte, quando sapevo che da qualche parte intorno a me stava per succedere qualcosa di davvero forte (un fotografo di guerra sviluppa presto un sinistro intuito per questo genere di cose; come mi diceva Martin Hoover, un vecchio corrispondente dell’Associated Press «Caro ragazzo, in certi casi, quando stai per scattare, il culo si stringe, lo stomaco si chiude e la pupilla si dilata. In tutto questo le dita sono l’unica cosa che puoi controllare, quindi lasciale sempre belle pronte e calde sulla macchina»), cercavo di esorcizzare il problema del tremore concentrandomi contemporaneamente sull’otturatore e sull’apertura del diaframma.
Una macchina fotografica, fondamentalmente, funziona come una trappola per la luce e l’otturatore è il comando che apre quella trappola. Meno lo apri e meno luce catturi. Quindi puoi essere parsimonioso con il tempo, puoi quasi arrestarlo se necessario.
Esplosioni, emorragie di sangue dalle ferite, perfino pallottole e schegge: in pratica puoi fermare di tutto. Lavorando invece sul diaframma, che funziona come la pupilla di un occhio umano, puoi stabilire quanta luce imprigionare e quindi sostanzialmente quanto spazio intorno a te mettere a fuoco. Meno luce catturi, più la profondità dell’immagine aumenta. In una foto possono trovare spazio migliaia di soldati oppure un solo volto, sei tu che lo decidi, piegando la luce alla tua volontà.
Spazio e tempo.
Il fotografo è dio quando scatta, perché li controlla entrambi: trovata l’alchimia perfetta, in quel preciso momento il mio tremore spariva ed ero una cosa sola con la macchina. Ero felice, era come provare un piccolo ma potentissimo orgasmo lungo un centesimo di secondo. Non voglio apparire eccessivo ma, se volete la verità, questo era esattamente ciò che provavo. In questo senso, fotografare è un po’ come fare un patto col diavolo, è fermare lo scorrere del mondo dove vuoi tu, dove per te c’è un significato universale, come se in quel momento tu fossi Faust.
Di fronte a una pagina bianca, invece, non posso fare nulla di tutto questo. Non posso scrivere più velocemente di come faccio, quindi non posso intervenire sul tempo. Il tempo scorre nella mia testa a un ritmo tutto suo e io non posso farci assolutamente niente: delle volte vengono a galla così tanti ricordi che le dita sulla tastiera non riescono a stargli dietro, delle volte il tempo non scorre affatto ed è frustrante, perché nella mia mente un certo fatto si ripete e si ripete, quasi non fosse soddisfatto del modo in cui l’ho messo a fuoco sulla carta. E non posso neanche fare entrare nella mia testa più parole e concetti di quanti già non la occupino, ronzando come api. Non aumenterei affatto la profondità del mio racconto, anzi creerei soltanto caos.
[da Immagini in una pagina bianca di Massimiliano Bellavista, Betti Editrice, 2024]
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