Se la letteratura ha o dovrebbe avere una funzione terapeutica sia sul piano fisico che su quello morale, e può servire a calmare l'isterismo di massa di queste ore, è bene chiamarla in nostro aiuto. Questo articolo si propone di compiere questo esorcismo, richiamando voci più o meno sommerse che sono state capaci di trasformare le difficoltà in occasioni, l'isteria collettiva in occasione di bellezza. Cosa abbiamo da perdere? Al più ne ricaveremo qualche utile “suggerimento per la lettura” durante le quarantene. È infatti probabile che la letteratura, almeno quella italiana, debba alcune tra le sue più memorabili pagine proprio alle epidemie. Del resto, non mancano i precedenti ancora più antichi e illustri: le pagine di Lucrezio ad esempio, o quelle di Tucidide che descrivono la peste in Atene Dica pure, riguardo a questo argomento, ognuno, medico o profano, in base alle proprie conoscenze, quale sia stata la probabile origine, e quali cause ritiene capaci di procurare un siffatto sconvolgimento; io descriverò come (la pestilenza) si sia manifestata, ed esporrò chiaramente quei sintomi dai quali la si possa riconoscere, essendone informati, se colpisse di nuovo, perché io stesso ho avuto la malattia e ho visto gli altri soffrirne.
Qualche tempo fa, poco prima di passare a miglior vita, Camilleri andò in onda sulla Rai con le “Conversazioni su Tiresia” scritte da lui medesimo. Il suo scopo era riuscire a capire cosa sia l'eternità. Tiresia è certamente un personaggio enigmatico, tanto sommerso nella nostra cultura che talvolta nemmeno ne avvertiamo la presenza, e Camilleri aveva ben ragione a parlarne al grande pubblico. Ne l’Edipo Re di Sofocle, a Tebe infuria la peste e, ad un certo punto della storia, Edipo chiede aiuto a Tiresia, vecchio indovino cieco. Tiresia, tuttavia, si rifiuta, sostenendo che il suo vaticino potrebbe portare conseguenze ancora più funeste. Edipo e Tiresia si scontrano verbalmente con toni molto accesi finché l’indovino non riferisce che proprio Edipo è l’assassino che si sta cercando. Edipo naturalmente non gli crede. Ma questa è un’altra storia.
Nel suo monologo ad un certo punto Camilleri parla de “Le mammelle di Tiresia” di Apollinaire. Era il 1917, e nel prologo di quest’opera racconta Et, sur le champ de bataille, afin de ranimer l’ardeur des combattants français, un capitaine s’écrie: «Il est grand temps de rallumer les étoiles». È tempo di riaccendere le stelle: una frase meravigliosa. Purtroppo Il 9 novembre 1918 Apollinaire moriva all’ospedale italiano di Parigi, sotto i colpi dell’epidemia di Spagnola, che tra il 1918 e il 1919 contagiò un miliardo di uomini, uccidendone circa venti milioni. Anche per Federigo Tozzi la sorte fu la stessa: nel 1920 pubblica per l’editore Treves “Tre croci”, ma l’autore muore proprio il 21 marzo 1920 per una polmonite.
Quanto all'Italia, comunque per parlare di letteratura ed epidemie non occorre mica riferirsi solo al Boccaccio, dove nel Decameron è l'epidemia che imperversa in Firenze a fornire la cornice narrativa della storia. Ma di cornice, appunto, si tratta: Dico dunque che erano trascorsi 1348 anni dalla benefica incarnazione di Cristo, quando nella pregiatissima città di Firenze, la più bella delle città d’Italia, giunse la pestilenza mortale. Essa era stata inviata agli uomini per negativo influsso degli astri o dalla giusta ira di Dio, per punire le nostre malvagie azioni e per correggerci. Era iniziata alcuni anni prima in Oriente, dove aveva fatto strage di esseri viventi, diffondendosi da un luogo all’altro senza fermarsi, ed era dilagata fino a Occidente in modo straordinario. A nulla servì che si adottassero provvedimenti per ripulire la città dalle immondizie o che si vietasse ai malati di entrarvi. Né i molti consigli dati a tutela della salute, né le suppliche a Dio fatte mediante le processioni o in altro modo da parte delle persone devote. All’inizio della primavera di quell’anno la pestilenza iniziò orribilmente a manifestarsi (...). E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse.
Un ruolo da protagonista l'epidemia invece la gioca ne “I promessi sposi” e nelle vicende milanesi di Renzo e Lucia. La peste nera del 1630 colpisce non solo Milano ma tutto il Lombardo-Veneto. Ne “La Colonna Infame” Manzoni si riferisce a quella costruita sulle rovine della casa milanese di Gian Giacomo Mora, accusato ingiustamente dalla voce (isterica) di popolo insieme a Guglielmo Piazza di essere un 'untore' della peste stessa. Qui sorgeva un tempo la casa di Giangiacomo Mora ingiustamente torturato e condannato a morte come untore durante la pestilenza del 1630... è un sollievo pensare che se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa ma una colpa. (Alessandro Manzoni, “Storia della Colonna infame”).
E non è solo Manzoni a cercare di esorcizzare il male e trasformarlo in memento, in esortazione verso la razionalità: ci pensavano anche i bambini, dal Seicento, che dopo il girotondo si inseguivano cercando di toccarsi e dicendo “Ti ghe l’è, ti ghe l’è, ce l’hai, ce l‘hai!”, alludendo al contagio. Gli inglesi invece, trent’anni più tardi, a Londra durante la peste del 1665, cantavano una filastrocca che si conosce ancora: “Ring a ring o’roses / A pocket full of/posies / A-Tishoo, a-tishoo / We all fall down!”. Si può dire che questo canto, nonostante le apparenze, non è meno disperato del primo perché il girotondo, in questo caso, non è un gioco, è piuttosto una specie di danza macabra, dato che in origine quella canzone era più che altro un modo per addolcire l’idea della morte nell’immaginario dei bambini. La morte era ingentilita dall’immagine della collana di rose, ovvero i mefitici bubboni che fiorivano prima attorno al collo, e da essa i bambini dovevano apprendere che non ci si poteva difendere, se non provando a riempire le proprie tasche e i propri respiri di erbe odorose (a pocketful of posies).
È singolare che proprio in quell’anno, il 1665, uno studente, peraltro considerato dal suo docente non molto brillante, decidesse di sfuggire al contagio isolandosi in quarantena nel Lincolnshire, una contea delle Midlands Orientali, presso la casa dove aveva trascorso l’infanzia, ovvero il Woolsthorpe Manor. Quello studente dedicò la sua lunga quarantena allo studio, ma ogni tanto doveva pur svagarsi e allora se ne andava in giro a passeggiare: nel 1666 – dopo uno di questi giri, si sedette sotto il suo albero preferito. Quando gli cadde una mela sulla testa, si dice che abbia iniziato a pensare alla gravitazione e al motivo per cui la Luna non precipitasse sulla Terra come la mela. Che sia vero o no poco importa, fu comunque in quarantena che Newton, ecco il nome di quello studente, approfondì i segreti reconditi della fisica e dell’ottica. Ce ne saremmo accorti tutti, per primo il suo professore di Cambridge che, quando lo rivide finita l’epidemia, lo trovò così cambiato (in meglio) che gli offrì una prestigiosa cattedra universitaria.
E da lì si va avanti in una sequela di storie che si potrebbe allargare a macchia d'olio a molta letteratura europea e mondiale, proprio come un virus, ma stavolta benefico se serve a vaccinarci dall' idiozia. Certo, il Thomas Mann de “La morte a Venezia”, non si può non menzionare: Già da parecchi anni il colera asiatico aveva mostrato un’accentuata tendenza a diffondersi anche fuori della sua terra d’origine. […] Ma mentre l’Europa sgomenta si aspettava che il morbo l’invadesse da quella parte, per via di terra, lo spettro invece aveva fatto la sua comparsa in vari porti mediterranei, attraversando il mare su navi mercantili di Siria […] Il nord della penisola era rimasto immune; ma a metà maggio di quell’anno i terribili vibrioni erano stati rinvenuti a Venezia, in un medesimo giorno, sui cadaveri nerastri e scarniti di un mozzo di nave e di una fruttivendola. Fu imposto il silenzio sui due casi, ma nello spazio di una settimana erano saliti a dieci, venti, trenta, e per di più in diversi quartieri.
E nemmeno si può omettere il Camus de “La Peste” con la malattia metafora di ogni male, ma da cui di deve cercare di guarire perché è quello, il morbo morale, il più contagioso e insidioso, arduo da debellare. Il microbo è cosa naturale. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deve mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile. Gli fa eco il Saramago di “Cecità” dove un uomo alla guida della sua auto, mentre è in attesa che il semaforo diventi verde, all’improvviso non vede più nulla. È l'inizio di una epidemia dove però, a differenza di Camus, la metafora è più quella dell'indifferenza, del menefreghismo da cui è affetta la società: È di questa pasta che siamo fatti: metà di indifferenza e metà di cattiveria.
E poi c'è tanta buona fantascienza, ovviamente. Su tutti, almeno per me, “L'ombra dello scorpione” (The Stand) di Stephen King, che inizia con la morte di quasi tutta la popolazione dell'America settentrionale a seguito degli effetti di un'arma batteriologica sfuggita al controllo dell'uomo: il virus, mutazione di quello dell'influenza è caratterizzato da un tasso di infettività del 99,4% ed un tasso di mortalità per gli infetti del 100%. Ma andando indietro nel tempo, come non ricordare il classico “Il giorno dei trifidi” di John Wyndham con l'epidemia di cecità, tanto per cambiare, apre la porta ad una invasione di mostri verdi, o l'apocalittica pandemia di “Earth Abides” di George R. Stewart.
Cerchiamo quindi di pensare positivo e rilassarci, con un po’ di ottimismo: è tempo di riaccendere le stelle.
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