Il vecchio pianista ne ha di cose da raccontare

Luigi Oliveto

29/04/2021

Metti un fumoso Caffè viennese, un vecchio pianista russo, uno scrittore… e il romanzo è bell’e fatto. Purché a scriverlo sia un eclettico quale Wolf Wondratschek, romanziere, sceneggiatore, poeta (già acclamato esponente della Beat Generation tedesca) che proprio dalla capacità di contaminare i linguaggi ha coniato una propria tecnica narrativa. Così che le sue pagine hanno tutto il ritmo, la sveltezza, il graffio, la misuratissima poesia del racconto cinematografico. A mostrarci questa abilità è ora il romanzo “Autoritratto con pianoforte russo” pubblicato in Italia da Voland con l’efficace traduzione di Cristina Vezzaro. Vi si narra di un anziano pianista in esilio dalla Russia (ha rinunciato alla carriera perché gli applausi gli erano diventati insopportabili) che, in un Caffè di Vienna, prende a raccontare la sua vita a uno sconosciuto (uno scrittore austriaco). Si avvia così un lungo monologo fitto di ricordi, vicende, pensieri, sentimenti difficilmente reinscrivibili in un presente, per lui popolato solo di spettri e di note non suonate. Il flusso del racconto non ha pause. È architettato affinché ci si chieda spesso chi sia il parlante e chi l’ascoltatore. E, in definitiva, di chi veramente sia l’autoritratto che va componendosi. Ma al di là della storia, le pagine di Wolf Wondratschek sottendono continuamente la domanda (e non è un caso che il titolo di ogni capitolo sia sempre posto in forma interrogativa) su cosa sia l’arte, la bellezza, la perfezione. E su come queste impattino con la vita: a volte magnificandola, altre, precipitandola nello sconforto, nella frustrazione dei propri limiti, nel rimpianto.
 
***
 
Interno caffè. Tutti i tavolini occupati. Tutte le barzellette raccontate. Tutti i giornali letti. Stranieri e locali. I camerieri ballano. L’aria, un sigaro che brucia. Al mio tavolo un russo, un pianista in gioventù, una celebrità dimenticata. Si è messo l’anima in pace. Mosca, Londra, Vienna. Tutte le distanze riassunte nel rigo di una poesia, tutte le sale fuse in un mistero. Ci ho provato, a far luce a mente lucida, ma ho fallito. Alla fine ci si ricorda più delle stanze d’albergo che dei concerti. Una stretta di mano troppo forte. Belle donne che bussano per poi scusarsi, era un errore. Una valigia con il lucchetto rotto. La torre Eiffel nella nebbia, per due giorni non si è visto niente. E naturalmente si sapeva: l’arte non può farci niente se non può niente.
Inconcepibile quanto un uomo possa diventare inutile, un uomo come me, che alla fine trova posto in un vuoto di memoria, senza scarpe, senza un sogno. La mano destra, capace di zampate un tempo, si destreggia con una sigaretta che i medici gli hanno vietato di fumare. Il cuore. Glielo hanno messo per iscritto. Morirà. E’ quello che mi auguro, risponde. E nessuna musica, nessuna nota. Le campane sì, come suonavano nei paesini della mia patria, quella dei miei nonni, delle mie zie e dei miei zii. Vacanze estive, le ricordo, lunghe settimane brevi. Grotte in cui non osavo fare un passo. Galline che ti morivano dissanguate tra le mani. L’attesa del temporale. I ramoscelli raccolti per un fuoco che naturalmente era proibito, ma non disturbava l’uomo che passava a cavallo; era tutto assorto nella canzone che canticchiava. Non dovevi fare il bravo, potevi restare sveglio a lungo e ascoltare le storie che gli adulti si raccontavano. Qualcuno poi se ti eri addormentato con il gusto dolce dei frutti di bosco ancora in bocca, ti portava a letto. Vivere felici! Stare a piedi nudi nel fango. Tuffarsi dagli alberi sul morbido. E arrampicarsi di nuovo. Ancora e ancora, senza smettere mai! C’erano donne, giovani donne a lavoro nei campi, che mi vergognavo di guardare. Quanti anni avevo quando mi erano venuti pensieri che non erano da bambino? Ah sì, altre ragazze sfrontate con le gote rosse già mi chiamavano, si erano nascoste! Raccoglievo quello che trovavo, lo gettavo via di nuovo, mi trascinavo oltre. Greggi di pecore. Impronte di carri sulla sabbia. Indovine vagabonde, giovani e vecchie, che commerciavano anche in perle e misteriose radici, perché il futuro era un brutto affare. I primi tasti bianchi e neri, quelli di una fisarmonica. I fazzoletti blu, il colore dell’amore. Torna, ti penso. Poi erano arrivati i tedeschi. Lasciavano i soldi, ma prendevano il sapone e i fiammiferi. Era arrivata la morte, e nessuno più che sapesse spiegarla. I vecchi ancora in vita non parlavano più. Chi andava a letto non si alzava più. Se si cantava, era solo a mente, di nascosto. Davanti alle icone dei santi da tempo non avevano più candele. Amore significava scaldarsi le mani a vicenda. Da Leningrado non era più uscito nessuno, nessuno più era entrato. Una città prigioniera della fame. Il luogo più sicuro, ormai, ci mancava solo quello, era la Siberia.
Sento parlare un uomo che ho appena conosciuto, il modo in cui articola la lingua a lui estranea suona strano, simile a un fragile castello di carte sonoro che tenta di proteggere con cura, anche dal suo respiro. E’ il suono delle frasi che vanno in salita. E’ un’altra cosa non facilita la comprensione: tutto nella sua testa si disperde e si perde. Sente il ghiaccio screpolarsi nei canali, i colpi sparati agli orsi, le note sbagliate che, inspiegabilmente indisposto, si è concesso a Parigi. Bisogna, penso, essere allenati per lasciargli tempo.
Si asciuga la bocca, dopo aver finito il bicchiere d’acqua in cui è caduta a sua insaputa la cenere della sigaretta, mi guarda come se avessi dato una risposta intelligente a una domanda che non ho fatto.
Sarà un piacere, dice. E dovrebbe piovere, mi è sempre piaciuta la pioggia. Dovrebbe piovere a lungo. Dovrebbe piovere fin nelle tenebre, nelle stelle. In Dio non credo. Sono un credente di altro tipo, di vecchio stampo.
 
[da Autoritratto con pianoforte russo di Wolf Wondratschek, trad. di Cristina Vezzaro, Voland, 2021]

 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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