Le spie arrivano dalle quattro alle cinque del mattino, e se ne vanno quando Amy si sveglia. Le loro orecchie ansimano tra la polvere delle assi del pavimento, si spingono per schiacciarsi ai muri e lì cominciano a sibilare, agli angoli della stanza si ammucchiano lasciando macchie di muffa nera. Solo quando Teo, un gatto grigio dal pelo folto, dorme ai piedi del letto, le spie non si avvicinano ad annusare i sogni di Amy. Poi quando i raggi lenti raggiungono i vetri della finestra, le spie, allontanandosi leggere, lasciano un sottile odore di bruciato.
Un violino suona una nota aspra e vibrante, poi Amy apre gli occhi, svegliata da una fitta al polso, come un ago. Passa davanti al vecchio specchio di sua madre per raggiungere il bagno, ignorando il suo riflesso vitreo e trasparente, mentre una scheggia le entra sotto il piede. In bagno riprende il suo taccuino, che la mattina precedente aveva appoggiato sui bordi della vasca, e continua il suo disegno con un lapis spuntato: un grande vaso di vetro che sgorga e sputa acqua perché sta per sgretolarsi in mille e mille schegge, mentre una figura esile lo abbraccia piangendo e chiudendo gli occhi per non ferirsi nel momento del boato. Oltre al grigio del lapis vorrebbe aggiungere del verde, ma non si ricorda dove ha messo la matita, così Amy esce dal bagno e apre tutti i cassetti del comodino con furia convulsa.
“Il caffè. Il caffè”. Le sue gambe schizzano come lampi nella cucina, dove il caffè bruciato si è ormai rovesciato sui fornelli, Amy guarda inorridita il disastro e sussulta al miagolio di rimprovero di Teo, che ancora non ha mangiato la sua dose di tonno in scatola. Il grande vaso di vetro Amy lo incontra tutte le notti in un sogno che si ripete incessantemente. Nel disegno manca la mano che continua a versare l’acqua nel vaso, allora strappa il foglio, lo butta in terra e comincia di nuovo il disegno, mentre una spia inghiotte verace il cumulo di cartastraccia.
Il sole non c’è, si è spento: “Il sole. Il sole dov’è, Teo?” chiede Amy con tristezza. L’orologio sopra la libreria segna le 19:48, sul foglio bianco c’è solamente un abbozzo di quattro dita. “Come può il tempo reale essermi così nemico, di giorno divento folle nel cercare di trattenere tutti i minuti che la luce mi presta, ma non ci riesco e tutte le mie aspettative annegano in un pozzo profondissimo, di notte vorrei tornare sana, ma i miei errori mi parlano e si moltiplicano come fotogrammi impazziti davanti ai miei occhi”. Mentre i pensieri rossi e viola di Amy si arrovellano e si aggrovigliano come ingranaggi di una macchina, lei chiude gli occhi per cercare di fermare il motore, controlla il fiato per non ansimare e pensa, poi si addormenta cullata da una lacrima dolce che le scende dalla guancia sinistra.
L’aroma della terra bagnata punge il naso e gli occhi di Amy, mentre il rumore lontano delle fronde e dei cinghiali risuona flebile fino al cielo, limpido. Il posto lo riconosce, l’ha già visto, forse in un libro di fiabe, ma adesso appare più familiare, quasi intimo, segreto. Voltandosi una luce ghiacciata travolge il suo viso e i capelli, e per un secondo pensa di aver incontrato la morte, ma quando il bagliore si espande, torna ad aprire gli occhi, che si scontrano con un alto palazzo, fatto di carta, e sulla soglia della porta una chitarra si suona da sola. Amy vorrebbe accarezzarla, si dirige piano verso di lei, senza accorgersi che dove cammina nascono ortensie e peonie. “Puoi entrare, se vuoi”, le canta la chitarra. La mano di Amy, muovendosi come fosse viva, si lancia verso la porta, ma non appena le due si incontrano, il palazzo, tremando, inizia a sbriciolarsi verso la luna e le stelle, lasciando di sé solo trucioli e polvere.
“Vorrei poter mangiare i tuoi occhi, le tue dita e i tuoi sogni”, dice una spia.
“Cosa mi offriresti in cambio?”. Una formica si arrampica sul davanzale per origliare, mentre Amy spera in una sola risposta.
“I rifiuti dei tuoi pensieri, potrai averli di nuovo con te”.
“Se sono rifiuti, perché dovrei riprendermeli?”.
“Quelli sono ciò che sei. Io lo so chi sei Amy, sei lavativa e pigra”.
“Tu che credi di conoscermi, tu chi sei?”.
“Una spia. Io, come tutte le altre, collezioniamo le tue angosce e turbamenti rubandoli quando non te ne accorgi, ci nutriamo dei tuoi sogni quando dormi, sono sogni preziosi, tu ancora non li hai ascoltati, ma loro suonano una melodia che ti appartiene come il tuo sangue. Così facendo, diventiamo noi stesse quelle angosce, turbamenti e sogni, tutto, tutto nello stesso posto e nello stesso momento. Dovrai abituarti alla nostra presenza, possiamo diventare amiche se vorrai, potrai lasciarci entrare nella tua mente ogni volta che te lo chiederemo, se vorrai. Ti potremo dare risposte sui sogni che non comprendi”.
I mobili, i tappeti, i libri nella stanza trattengono il fiato. “Il vaso di vetro è perché non riesci ad accettare che sei svogliata. Vuoi confermare a te stessa che devi farcela, ma non fai altro che innescare, ogni volta che aggiungi l’acqua al vaso, uno tsunami di dolore e insoddisfazione. Il palazzo di carta è perché costruisci ingegnosamente e diligentemente degli scenari impossibili di futuri inafferrabili, che poi appena possono, scappano liberi. Hai altro da chiedere?”, domanda dopo qualche minuto la spia.
“No”, risponde Amy.
La mattina, dopo la doccia, Amy non si era mai sentita così pura.
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