La notizia ha fatto presto il giro del mondo: nel sito archeologico di Pompei, un thermopolium quasi intatto è stato riportato alla luce proprio in questi giorni. La scoperta e i primi scavi risalgono a qualche anno fa, ma soltanto adesso, a fine 2020, nonostante la pandemia, i lavori hanno raggiunto il loro clou restituendo alla luce la quasi totalità dell’antica bottega di alimentari e street food. Situato nella Regio V, all’angolo tra il vicolo dei Balconi e la via della Casa delle Nozze d’Argento, il thermopolium è tornato alla luce con il suo bancone ad “elle” con su raffigurate due anatre, un gallo e un cane al guinzaglio. Ma l’aspetto più sensazionale di questa scoperta è il ritrovamento delle pietanze vendute nella bottega, conservatesi all’intero dei contenitori di coccio incassati nel bancone stesso. Resti di cibo a base di capretto, pesce, lumache e addirittura una sorta di paella che univa carne e pesce. E poi l’anfora del vino con le fave, all’apertura della quale gli archeologi sono stati letteralmente inebriati da un forte odore, tanto da farli parlare di “archeologia olfattiva”. Una scoperta incredibile che contribuirà sicuramente a far luce sulle abitudini alimentari e culinarie degli antichi Romani.
Apicio - La fonte più importante che possediamo, fino ad oggi, riguardo alla gastronomia degli antichi Romani è sicuramente il De re coquinaria (Sulla cucina) di Marco Gavio Apicio. Nato intorno al 25 a.C., vissuto quindi a cavallo tra il primo secolo a.C. e il primo d.C., Apicio era noto per le sue stravaganze culinarie e per le sue ingenti ricchezze che destinò nella sua totalità agli sperimentalismi gastronomici. Le fonti raccontano che un giorno, sentendo parlare dell’incredibile grandezza dei gamberi libici, non esitò a noleggiare un’imbarcazione e a recarsi in Libia. Visionati in porto tali gamberi e rimastone decisamente deluso, fece ritorno in Italia senza neppure attraccare. A lui sono attribuite ricette stravaganti quanto crudeli: pietanze a base di talloni di cammello, di lingua di pavone e di creste di volatili tagliate ad animali ancora vivi. Secondo Seneca (Consol. ad Helv. 10,8-10), Apicio si sarebbe tolto la vita appena resosi conto che il suo patrimonio si era ridotto – si fa per dire – a soli cento milioni di sesterzi e che quindi non avrebbe più potuto tenere il suo amato folle tenore di vita. Il De re coquinaria è una raccolta di circa cinquecento ricette che, nonostante ci sia pervenuta sotto il nome di Apicio, testimonia una tradizione gastronomica e culinaria di circa quattro secoli. I filologi sono dunque concordi sul fatto che tale opera sia il risultato di una lunga redazione nel tempo e che, forse, solo un nucleo centrale, quello delle salse (conditurae), sia stato scritto davvero da Apicio.
Distanze culturali - La cucina e l’alimentazione sono da sempre una componente essenziale di un popolo e di una civiltà e di conseguenza, in questo specifico caso, l’ambito gastronomico e culinario è un ottimo terreno per misurare le distanze culturali (antropologiche) che intercorrono tra noi e gli antichi. Come testimoniato dal ritrovamento della “paella pompeiana”, che univa carne e pesce, gli antichi erano soliti apprezzare la mescolanza di sapori opposti mentre noi moderni (noi occidentali, poiché gli orientali sono più predisposti alla mescolanza) preferiamo i sapori lineari, ovvero quelli che denunciano apertamente la base con cui sono fatti. Anche il vino, onnipresente nella cultura greca e latina, in realtà veniva consumato differentemente rispetto al modo con cui lo beviamo oggi. Si era soliti diluirlo con l’acqua, poiché di alta gradazione, e poi mischiarlo con sostanze aromatiche come il miele, la resina e addirittura – impensabile per noi – con l’acqua di mare.
La posca - I poveri e i legionari bevevano invece la posca, un miscuglio di aceto allungato con l’acqua e anch’esso, spesso, addolcito col miele: una bevanda economica dalle proprietà disinfettanti e idratanti. Alla luce di questa differenza culturale tra noi e gli antichi, il passo del Vangelo di Giovanni, dove a Gesù morente fu dato da bere dell’aceto per mezzo di una spugna conficcata in una canna, potrebbe assumere tutt’altra interpretazione: Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: "Ho sete". Vi era lì un vaso pieno d’aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, spirò. (Vangelo di Giovanni 19, 28-30). Prendendo coscienza che per i Romani il bere acqua ed aceto, ovvero la posca, era una prassi normale, se pur umile, il gesto del soldato romano sarebbe stato dunque un atto caritatevole e compassionevole verso il crocifisso e non un atto di scherno e di accanimento come invece ci è stato spesso insegnato durante l’ora pomeridiana di catechismo, quando eravamo bambini. Questo per sottolineare quanto sia importante non imporre le nostre categorie culturali a culture diverse dalla nostra, sempre che si desideri capire una cultura “altra” per quello che realmente è.
Il fritto - Anche l’atto del “friggere” testimonia una certa differenza tra noi e gli antichi. Come ci spiegano Bettini, Chiarini, Fo, Guastella, Oniga e Pucci in “La letteratura latina. Storia letteraria e antropologia romana” a cura di Maurizio Bettini (La Nuova Italia, 1995), nella cucina romana l’atto di friggere non si riferiva esclusivamente al cuocere un cibo nell’olio bollente, ma si poteva friggere anche utilizzando liquidi diversi dall’olio. L’importante, per realizzare una cottura «fritta», è che il liquido in questione ferveat, sia molto caldo, e che la vivanda sia gettata nel liquido solo al momento della sua forte ebollizione. Come continuano a spiegarci i professori sopra citati, lo stesso Apicio ci insegna a friggere con un miscuglio di olio, vino e garum (la salsa di pesce tipica della cucina romana), oppure in un miscuglio di garum, acqua, aceto ed olio. Ma si poteva friggere anche nel miele cotto o nel solo garum. Insomma, a conferma dell’importanza delle differenze culturali, è proprio il caso di dire che i pompeiani del 79 d.C non avrebbero mai potuto fare propria la tipica espressione toscana qui non si frigge con l’acqua!
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