Il tempo delle tribù. Dialogo sulla moda giovanile che "uccide e cancella"

Francesco Ricci

07/11/2016

Con l’arrivo della bella stagione gli studenti indossano calzoni corti. Vanno a sostituire i pantaloni – spesso col cavallo basso – che hanno portato nei mesi più freddi, avendo cura che l’orlo non scendesse mai sotto la caviglia. Le felpe, meglio se col cappuccio, fanno posto a camicie a manica corta portate sbottonate. Le ragazze si divertono a cambiare il colore delle scarpe da ginnastica in tela e dello smalto a seconda dei suggerimenti della moda, indossano magliette che lasciano scoperto l’ombelico e leggings di un tessuto più leggero. Sono pochissimi coloro che si sottraggono a questa “uniforme” del mondo giovanile, ostentando con orgoglio pantaloni lunghi e larghi in fondo, scarpe più grandi di almeno un numero, dalle stringhe slacciate, magliette di cotone a manica lunga, capelli spesso rasta (dreadlocks), e qualche accessorio riconducibile a un modello etnico – per lo più del passato – diverso da quello europeo egemone. In classe o nei corridoi della scuola, lungo le vie del centro o davanti a una fermata dell’autobus, la moda giovanile si offre allo spettatore sotto il segno dell’uniformità e dell’omologazione più completa.
       
Da questo punto di vista, un’esperienza analoga a quella da me fatta nei primissimi anni Ottanta a Milano pare ormai improponibile. Avevo quindici anni. Frequentavo la quinta ginnasio. In gita scolastica nel capoluogo lombardo, scesi coi miei compagni dalla metro e raggiunsi piazza del Duomo. Fu un attimo. Fu una rivelazione. Davanti ai miei occhi si offriva lo spettacolo – per me esaltante – di tante piccole tribù, che si dividevano con fierezza il territorio; paninari, dark, metallari, hippies, new romantics, punk, rockabilly, new wave, skinheads. La loro vista non soltanto consentiva di cogliere l’avvenuto crollo della barriera che separava il maschile dal femminile e che, a livello di abbigliamento, comportava il trionfo del tipo androgino, come già osservato a suo tempo da Roland Barthes; ma permetteva anche di cogliere la vitalità del sentimento di appartenenza a un gruppo, sentimento che traeva alimento dallo status sociale, dai gusti musicali, dal modo di intendere il tempo, dal valore accordato al denaro, dall’idea di vita e di morte che si aveva.

Le poche volte che, in anni recenti, sono tornato a Milano, di quello spettacolo la sola cosa che ho potuto rinvenire è stato il ricordo, dolcissimo e amaro al pari di tutto ciò che rimanda a una stagione della vita esaltante e breve o, forse, esaltante proprio perché breve, quale è l’adolescenza. Né il discorso cambia di una virgola se mi volgo col pensiero a Napoli o a Roma o a Firenze. L’uniformità dell’abbigliamento su scala mondiale costituisce ormai della moda (giovanile) la nota più evidente, che non ha certo cancellato, ma sicuramente relegato in secondo piano, quelle che in precedenza ne formavano le due caratteristiche precipue, vale a dire il tratto nichilistico e il rifiuto della durata temporale. La moda, infatti – e nessuno lo ha detto meglio di Leopardi nel “Dialogo della Morte e della Moda” – costituisce, per la necessità che possiede di distruggere in continuazione il vecchio per far posto al nuovo, una sorta di versione laicizzata di Thanathos: al pari di lei, infatti, uccide e cancella. Inoltre, i mutamenti che induce nel modo di vestire delle persone sono talmente rapidi e talmente definitivi da recidere ogni filo che lega il presente al passato e al futuro: nulla più sembra permanere, nulla più sembra durare, la verità risiede nella transitorietà. La sola possibilità che resta al giovane di distinguersi, in un mondo che è ormai strutturalmente incapace di concepire le differenze culturali – la rivoluzione antropologica intuita con la consueta lungimiranza da Pasolini si è compiuta –, è affidata ai dettagli. Ecco allora che là dove il ragazzo benestante indossa scarpe di marca, il figlio dell’insegnante ne indossa di simili – il modello è lo stesso –, acquistate, però, a metà prezzo nei grandi magazzini; là dove la ragazza porta dei jeans con strappi e tagli fatti ad arte, gli stessi jeans che fanno bella mostra di sé nella vetrina del più costoso negozio del corso cittadino, la figlia della badante ucraina o della donna delle pulizie italiana veste calzoni a prima vista identici, ma che, in realtà, sono di un tessuto scadente e non sono griffati. Alla fine, la sola cosa che la moda giovanile ormai riesce ad esprimere nel suo linguaggio non verbale è – bilancio avvilente – che, rispetto a un ventennio fa, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E questa è una distinzione che né nutre né arricchisce l’esistenza, bensì l’avvelena.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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