Il romanzo di Mathieu sul diritto al futuro dei nostri figli

Luigi Oliveto

12/09/2019

Anno 1992. Siamo nel Grand Est della Francia, in Lorena, nella cittadina di Heillange (nome di pura fantasia) la cui vita, e quella di tutta la regione, da almeno sei generazioni era dovuta alla presenza delle acciaierie Metalor. Fino a quando, tra la fine degli Ottanta e i Novanta, i forni della Metalor vengono spenti, l’industria è dismessa e una comunità intera precipita nella precarietà, non solo economica. Di questo parla l’ultimo romanzo di Nicolas Mathieu, “E i figli dopo di loro”, premio Goncourt 2018. Racconta una realtà di degrado simboleggiata dalla ruggine che ormai ricopre i vecchi impianti industriali e soprattutto dallo sfaldamento di un tessuto sociale. Heillange è diventata un desolante teatro di alcolisti, spaccio di droga, criminalità. Un luogo di rancoroso tedio dove “il paesaggio offriva solamente rovine, anticaglie, la noia delle settimane senza soprese, dei volti tutti conosciuti”. Dopo un secolo in cui “gli altoforni di Heillange avevano drenato tutto ciò che di esistente conteneva la regione, ingoiando gli esseri, le ore, le materie prime”, i giovani non hanno prospettiva alcuna; e, di più, devono sopportare la disfatta delle proprie famiglie, di quel piccolo mondo fattosi angusto, crudele: “A casa erano licenziati, divorziati, cornuti o malati di cancro. Erano normali, insomma, e tutto quello che esisteva al di fuori passava per relativamente inammissibile. Le famiglie crescevano così, su grandi gettate di rabbia, su sotterranei di dolori agglomerati che, sotto l’effetto del Pastis, potevano tornare su di colpo, nel bel mezzo di un pranzo festivo. Ecco lo scenario sul quale prende forma un romanzo di formazione che vede protagonisti tre adolescenti. Il quattordicenne Anthony, non proprio un adone, con un occhio semichiuso che gli dà un aspetto minaccioso, inquietante. Stéphanie, la cui bellezza in quel contesto è totalmente sprecata. Hacine, il più grande dei tre, fissato con le moto, arrivato con la famiglia dal Marocco (il padre sogna per lui una felice integrazione). E’ un’estate afosa, la pesantezza dell’aria si somma al diffuso sconforto delle persone, i tre ragazzi vivono le loro prime volte, il primo bacio, le prime canne, le corse spericolate in bicicletta, la musica dei Nirvana, il desiderio di fuggire da quel posto che non ha più il futuro immaginabile d’una volta. Attraverso lo sguardo – ingenuo, talvolta feroce – di Anthony, Stéphanie, Hacine, l’autore racconta una storia di provincia, ma che è storia universale per come, negli ultimi decenni, si sia ripetuta ovunque la deindustrializzazione abbia minato benessere, assetti sociali, culture che si ritenevano dati per sempre. Con una scrittura disadorna, con fitti dialoghi anch’essi funzionali a rendere un paesaggio umano, con rari ma intensi baleni di poesia, Mathieu ha costruito un romanzo che pone un problema non da poco: il diritto al futuro dei nostri figli al tempo della globalizzazione. Soprattutto in quelle tante periferie d’Europa dove, più che altrove, la marginalità soffre una condizione di impotenza, rabbia, mancanza di orizzonti.
 
***
 
Anthony riconobbe subito la risata di Grandemange padre. I vicini dovevano essere ancora lì a bere l’aperitivo con i suoi genitori, nel patio. Fece il giro per raggiungerli. La casa dei Casati era a un piano, senza niente intorno, solo il prato mezzo defunto sul quale i passi del ragazzo facevano un rumore di carta stropicciata. Suo padre, che si era stufato di curarlo e strappare le erbacce, gli aveva dato una bella passata di diserbante. Da allora poteva guardarsi senza un pensiero al mondo il Gran Premio della domenica. L’unica cosa o quasi che gli tirava su il morale, insieme ai film di Clint Eastwood e a I cannoni di Navarone. Anthony non condivideva granché con il suo vecchio, ma avevano almeno questo, la tivù, i motori, i film di guerra. Nella penombra del soggiorno, ognuno nel proprio angolino, era il massimo di intimità che si concedevano.
Per tutta la vita i genitori di Anthony avevano avuto quell’ambizione, “costruire”, la casetta come obiettivo, e bene o male ci erano riusciti. Restavano solo vent’anni di mutuo perché fosse tutta loro. Le pareti erano di cartongesso, con il tetto spiovente come in tutte le regioni dove piove metà del tempo. D’inverno il riscaldamento elettrico produceva un po’ di calore e bollette stratosferiche. A parte questo, due camere da letto, una cucina attrezzata, un divano di pelle e una piattaia con maioliche di Lunéville. In genere Anthony ci si sentiva a casa.
«Ah, ecco il bellissimo.»
Évelyne Grandemange era stata la prima a vederlo. Lo conosceva da quando era piccolo. Anthony aveva persino fatto i primi passi nel loro vialetto.
«Quando penso che ha imparato a camminare nel vialetto.»
Il marito confermò con un cenno del capo. Ormai il quartiere della Grappe esisteva da più di quindici anni. Ci si viveva come in un paesino, o quasi. Il padre di Anthony guardò l’orologio.
«Dov’eri?»
Anthony rispose che aveva passato il pomeriggio con il cugino.
«Sono tornato dagli Schmidt, stamattina» disse il padre.
«Avevo finito tutto prima di andare via…»
«Sì. Ma avevi dimenticato i guanti. Vieni a sederti.»
Gli adulti si erano accomodati su sedie da campeggio intorno a un tavolo da giardino di plastica. Carburavano ad amaro, tranne Évelyne che beveva Porto.
«Puzzi di fango» osservò Hélène, la madre di Anthony.
«Abbiamo fatto il bagno.»
«Credevo che ti facesse schifo. Ti verranno i foruncoli. È pieno di acqua delle fogne.»
Il padre commentò che mica sarebbe morto.
«Vai a prenderti una sedia, invece» disse la madre.
Per scherzare, Grandemange padre gli fece segno di andare a sedersi sulle sue ginocchia battendosi i palmi delle mani sulle cosce.
«Fidati, reggono.»
Il brav’uomo era alto quasi due metri, con mani dure come il legno a cui mancavano tre falangi. Per cacciare usava un fucile speciale che gli permetteva di premere il grilletto con l’anulare. Era un battutista impenitente che non faceva particolarmente ridere. Anthony ne conosceva tanti come lui, che scherzavano più per cortesia che per altro.
«Comunque non ho intenzione di restare a casa.»
«Dove pensi di andare?»
Anthony si girò verso suo padre, la cui faccia si era indurita. Quando succedeva, la pelle si tendeva di colpo, assumendo un aspetto cuoioso piuttosto bello.
«Domani è sabato.»
«Lascialo andare, è in vacanza.»
Era intervenuto il vicino. Il padre sospirò. Un tempo lui e Luc Grandemange avevano lavorato da Rexel, poco dopo la chiusura degli altiforni. Facevano parte di quel contingente di esuberi volontari riconvertiti in carrellisti tramite il programma di formazione. Allora gli era parsa una buona opportunità; guidare muletti tutto il giorno poteva sembrare un gioco. Poi Patrick Casati aveva avuto dei guai. Aveva perso la patente e il lavoro lo stesso giorno, per lo stesso motivo. La patente era riuscito a riaverla facendo di nuovo l’esame dopo sei mesi di rogne burocratiche e un percorso di sostegno per alcolisti. Il lavoro, invece, nella valle scarseggiava e alla fine aveva deciso di mettersi in proprio. Si era comprato un camioncino Iveco con il cassone, una falciatrice, attrezzi e una tuta con il suo nome cucito sopra. Al momento faceva lavoretti qua e là, perlopiù in nero. Nei mesi buoni riusciva a portare a casa quattro o cinquemila franchi. Insieme allo stipendio di Hélène più o meno se la cavavano. L’estate era l’alta stagione e aveva arruolato Anthony per falciare prati e pulire piscine. Un aiuto che si rivelava particolarmente utile quando doveva smaltire la sbronza. Proprio quella mattina Anthony si era sciroppato la potatura degli arbusti a casa del dottor Schmidt.
Alla fine il padre prese una birra dalla borsa termica ai suoi piedi, la stappò e la passò ad Anthony.
«Questo qui pensa solo a uscire.»
«È l’età» disse il vicino con filosofia.
Dalla maglietta gli sporgeva un po’ di pancia, una massa livida, piuttosto disgustosa. Si stava alzando per cedergli il posto.
«Dai, siediti due minuti. Raccontaci.»
«È cresciuto ancora, no?» osservò Évelyne.
Anche Hélène Casati insistette perché restasse un po’, ricordandogli che quella casa non era mica un albergo. A ogni secondo che passava un pezzo della festa di Drimblois si volatilizzava.
«Cosa ti è successo alla mano?»
«Non è niente.»
«Ti sei disinfettato?»
«Non è niente, ti dico.»
«Vai a prenderti una sedia» fece il padre.
Il ragazzo lo guardò. Pensava alla moto. Obbedì. Sua madre lo seguì fino in cucina. Anthony se la cavò con una passata di alcol a novanta gradi e un cerotto.
«Non ne valeva la pena» disse.
«Un mio cugino così ha perso un dito.»
Sua madre sfoderava sempre aneddoti edificanti di quel genere, imprudenze che si trasformavano in drammi, destini invidiabili stroncati da una leucemia. Alla lunga, era quasi una filosofia di vita.
«Fammi vedere.»
Anthony mostrò la mano. Perfetto. Tornarono nel patio.
Lì brindarono, poi Évelyne cominciò a fargli domande. Voleva sapere come andava a scuola, come passava le vacanze. Anthony dava risposte evasive, e lei lo ascoltava con un sorriso gentile, brunito dalla nicotina. Per la serata si era portata dietro due pacchetti di Gauloises. Nelle pause della conversazione si sentiva il suo respiro, un sibilo rauco, familiare, poi lei si accendeva un’altra sigaretta. A un certo punto il padre cercò di scacciare una grossa ape che succhiava gli incarti dei cubetti di formaggio da aperitivo. Ma visto che l’ape insisteva andò a prendere la racchetta elettrica per le mosche. Un bzzz, un odore di bruciato, e l’insetto rimase stecchito.
«Che schifo» commentò Hélène.
Per tutta risposta il padre vuotò il bicchiere di amaro e pescò un’altra birra dalla borsa termica. Lui e il vicino cominciarono a discorrere della tragedia che era appena accaduta a Furiani. Per Luc Grandemange quella strage non aveva nulla di sorprendente. I còrsi li aveva visti all’opera sui cantieri, e sghignazzava. Come succedeva spesso, parlavano di calcio, dei còrsi e dei beduini. Évelyne si spostò, non le piaceva quando suo marito si scaldava per quel genere di storie. Va detto che le recenti disavventure della polizia creavano parecchio subbuglio nel quartiere. I casermoni non erano poi così distanti. Tutti vedevano già gli arabi con il passamontagna che incendiavano le auto, come a Vaulx-en-Velin. Il vicino e il padre potevano solo prendere atto dell’escalation di violenza e immaginavano se stessi nel ruolo di ultimo baluardo.
 
[da E i figli dopo di loro di Nicolas Mathieu, trad. Margherita Botto, Marsilio, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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