Il sole era ancora alto mentre Agnese rientrava a casa quella sera. Era fine giugno ed era piacevole percorrere le vie della città con calma, con quell'afa ristoratrice a memoria di tempi più angusti e un sorriso stampato sul viso, messo lì un po' per tutti e un po' per nessuno, come un biglietto di presentazione: “Ecco, questa sono io!”. In ufficio, alle pratiche burocratiche da compilare, quel giorno si era aggiunta la parte dello sportello: dalle 17.00 alle 18.00. Volti unici si erano alternati con domande e dubbi, con rabbia e con gentilezza, con timore e con arrendevolezza alle prevaricazioni. Quello delle ingiustizie, era un tema che la toccava da vicino. “Si partiva sempre da qualche ingiustizia subita o sul lavoro, per chi aveva la fortuna di averlo un lavoro! O in una relazione o in famiglia”, pensava tra sé. “Chi non aveva avvertito quel tremore involontario della mano o dell'occhio di fronte a un'offesa gratuita, una maldicenza, una porta sbattuta in faccia!”. “Chi non aveva conosciuto quel dolore allo stomaco solitamente notturno?”. Lei ne sapeva qualcosa. E, a causa proprio di una e più ingiustizie subite era giunta con volo diretto in quel luogo chiamato Fondo di cui si sente parlare gli altri e in cui si spera di non finire mai.
Il Fondo. Spesso è proprio della condizione umana perdere il contatto con i propri sogni, desideri, con quell'energia e quello spazio di azione che consente di andare avanti e superare quel cartello sulla strada della vita che ci obbliga a tornare indietro o a fermarci o a rimanere chiusi in un abitacolo definendolo “casa” e allora sopraggiunge quella sensazione di non riuscire a stare a galla. Di annegare! In un primo momento quella nuova condizione ci terrorizza, ci fa dimenare, sbarrare gli occhi. Poi, quando ormai l'acqua ha preso dimora nei polmoni e non sappiamo se o quando potremo risalire e se ne avremo le forze e la voglia, ecco che lo tocchiamo il Fondo. Buio, nero, con alghe. Ma anche con anemoni, pesci pagliaccio, cavallucci marini, posidonie che sembrano lì per noi, per solleticare la nostra voglia di risalita permettendoci di trovare quello slancio verso l'alto, abbandonando....quel Fondo. Almeno per un po'. Almeno il tempo di una sniffata di sale e mare. Perché non è semplice, ma non è impossibile! E ogni Fondo per quanto azzurro possa nascondere, rimane un luogo che ci sta stretto, che non permette di espanderci, di illuminarci, di respirare! A questa conclusione era giunta Agnese, sollevata da quell'assonanza tra la sua vita e la sua desolazione. Rituali di suoni armonici e dissacranti.
Per giorni, aveva cercato di dare una definizione della parola Fondo che le appartenesse e alla fine era giunta a considerare quel vuoto in cui era caduta come una voragine. Sì! Proprio così. La sua voragine era viva: impetuosa, scalpitante, ansiosa. Il che l'addolorava, ma un po' le piaceva. E questo non riusciva a spiegarselo. Lì, dentro quel fondo, la vita era un po' diversa dal fuori. Gli altri, i nostri cari, i colleghi di lavoro, le persone per strada, erano distanti. Quello spazio le permetteva di lasciarsi andare, di non lottare, di deporre le armi. Come una goccia vagante e leggera, era precipitata in un oceano di cristalli incandescenti che urtandosi provocavano scintille e fiamme, quasi un inferno dantesco... Era disorientata, spaventata, delusa da quella vita che le aveva dato tanto e che in quei mesi le stava chiedendo tanto e si stava prendendo tanto! Anche quel tanto non riusciva a decifrarlo bene per quanto si sforzasse. Assomigliava quasi alla scrittura cuneiforme dell'antico impero Assiro-babilonese o per dirla in un linguaggio più recente, allo script dei bambini alle prime prese con la composizione di una parola. Anno dopo anno, da quando aveva compiuto 50 anni, aveva intrapreso un sentiero di solitudine e afasica avventura. Si poneva quelle domande che gli asceti rivolgono alla montagna, i filosofi rivolgono al cosmo, i deboli rivolgono a Dio. Non che si sentisse debole, ma aveva alcune di quelle caratteristiche che, secondo determinati criteri o qualità, le permettevano di rientrare in un ben circoscritto catalogo di una ben specifica categoria: I ricercatori del senno di Orlando. Gruppo di un'applicazione web, filosofico e pensante!
Si discuteva dell'anima e della sua essenza o esistenza; si rifletteva sul divino nell'uomo e nelle sue azioni; si comparavano teorie; si guardava ai guadagni o alle perdite derivanti dalla condizione umana; ci si soffermava sul sentire o sull'ascoltare e si traevano conclusioni un po' astratte e confuse a volte che però facevano sentire tutti parte di un gruppo. Il che non era male. E Agnese aveva tanto bisogno di appartenenza, di essere in relazione, di essere interdipendente. L'appartenere ad una fede o famiglia o comunità, le dava un senso di identità forte, una sicurezza, un nido in cui rinascere. A pensarci bene non aveva una vita sociale. E negli ultimi anni era pure peggiorata. Ma non le mancava. Non ne aveva mai assaporato una e di conseguenza non poteva desiderarne una. Per ora c'era questo gruppo a cui si dedicava nei momenti di relax e in cui poteva esprimersi senza timore. Ma con lei non si correva alcun pericolo, perché era moderata, timida, riservata. Nel quotidiano, Agnese cadeva e si risollevava. Cadeva e si risollevava con uno sforzo sempre maggiore e con una stanchezza languida che le faceva desiderare solo di sparire nell'azzurro del mare Tirreno, a pochi passi da casa o nelle mille sfumature di verde della pineta mediterranea che lambiva la proprietà del nonno i cui pini marittimi si erano piegati alla volontà del vento per proteggere i campi al di là del mare. Ed ecco delinearsi esemplari inginocchiati al terreno come in preghiera oppure intrecciati per trovare uniti quella forza da opporre al soffio impetuoso di un libeccio. Uno spettacolo silenzioso sul palcoscenico del tempo.
Maggio era giunto con il suo tepore. Quest'anno, però, c'era una novità! Al tepore si alternavano folate fredde o un cupo cielo primaverile. Il che andava più che bene. Splendidamente! Almeno per lei. Il vento, in modo particolare, quel vento, la faceva sentire parte della sua vita! E, il cielo primaverile instabile e ironico la tranquillizzava, le regalava un affetto malinconico ma presente. Aveva attraversato quasi indenne il suo ultimo compleanno quando ecco palesarsi l'incubo che l'aveva accompagnata nei 12 mesi precedenti. La malattia del padre. Troppo per chiunque! E poi era arrivato giugno! Uno stato di apparente benessere si univa ad una trascurata alienazione per ciò che accadeva intorno a lei. Camminare nella routine per quel doveroso senso del fare votato all'adempimento delle abitudini di chi l'aveva educata e allevata secondo il suo ammaestramento, senza considerare chi lo stava per ricevere o lo avrebbe ricevuto. Un sonnolento eccitamento la salvava in alcuni giorni, insieme ad una masochistica attenzione alla sua persona. Almeno questo!
E, ogni mattina, andava incontro al nuovo giorno che si palesava ai suoi occhi attraverso le piccole fessure della tapparella della camera con un adagio che si trasformava in un allegro appena varcava la soglia dell'ufficio in cui da dieci anni lavorava. Il suo lavoro le piaceva. Il suo lavoro la distraeva. Per il suo lavoro quasi viveva. Suo padre era sempre stato un uomo di gran classe. Fiero di sé stesso, competente, un bell'uomo. A questo si aggiungeva quel fare di amante del sud, tenace, allegro, tuttofare. Imbattibile! Aveva raggiunto un'età onorevole nel benessere e in salute. Poi, un piccolissimo acciacco si era trasformato in un'atomica fine.
Come è possibile che la morte porti via così? Almeno un saluto, una spiegazione, un sorriso che ti faccia capire “E' tutto ok”, pure se non lo è. Certo, la morte è morte, ma non è uguale per tutti. Anche questo estremo saluto alla vita rivela delle diseguaglianze. E, lei, Agnese, era rimasta ammutolita di fronte alla sua vita. Cosa dirle? Cosa fare? Urlare? Lo aveva fatto con tutto il fiato che poteva ingoiare. Non era servito a nulla. Per giorni, non parlò più. Arrabbiarsi? Con chi e per cosa? Sì, perché quando si raggiunge un passo dal fondo la lucidità vacilla. Si era aggrappata alla pazienza. E ricordò una frase di Campbell* che aveva letto durante i suoi studi giovanili in cui la pazienza può essere considerata quell'arte di far fronte alle difficoltà in quel tempo vuoto riempito dall'attesa. Ecco, Agnese aveva iniziato a vivere in uno stato di attesa. Attesa di qualcosa o qualcuno; nell'attesa di superare un problema fisico, una relazione. In attesa di essere migliore, di un cambiamento. Era ferma ad un bivio da anni. Lì, in compagnia di volti cari e non cari, in compagnia dei suoi pensieri ostili, era senza sé, concentrata su una vita che non era la sua e che aveva vissuto per molti anni per gli altri. A questo evento, si aggiungeva la sua vecchia relazione con Cesare. Mai iniziata veramente e mai dichiaratamente finita! Si erano conosciuti per volere di Cesare, quattordici anni prima. Una storia ad intervalli regolari. Una storia di platonici e intimi momenti, di solitudine e rabbia e silenzi.
All'improvviso terminava per sua volontà e poi, ricominciava per volontà di Marco, dopo una pausa più o meno lunga. Era quella che appesantiva gli attimi vissuti imprigionandoli dietro le sbarre della malinconia o della solitudine per l'imminente fine. Era quella che non conosceva la leggerezza di una storia che custodiva nella paura di perderla. La sua era una richiesta di attenzione moderata, del tipo ci sono, ma non troppo. Era quella a cui la separazione pesava di più. Ed era quella che tentennava nel riprendere il rapporto o che manteneva le distanze fisiche, ma il pensiero di lui l'accompagnava ovunque. Era una compagnia diligente, stancante. A volte non gradita perché le impediva di lasciarsi andare completamente in un nuovo rapporto d'amore, a volte ingombrante perché le impediva di concentrarsi completamente nelle letture di fine settimana. Sul lavoro, no! Cesare e il suo fantasma non avevano possibilità di intrusione. Agnese rimaneva concentrata, assorbita in quello che faceva. La storia personale invece tentennava tra insicurezza e determinazione. Per cui il Fondo era giunto aspettato. Più profondo di un fondo qualsiasi. Era di taglia large. Super large. E lei giaceva in quel buio in cui non poteva muoversi, solo attendere che passasse. Qui le emozioni si riproducevano con una rapida sequenza. Una ogni minuto. Tristezza, malinconia, rabbia, rancore, gioia, disprezzo, riconoscenza, paura, disgusto, imbarazzo, confusione, desiderio, nostalgia. Una contro l'altra. Una per distruggere l'altra. Confusione! Malessere orfano di cotante madri o padri.
Il ring era allestito. Corde tese, rivestite da una spugna alta posta tra quattro pali equidistanti, un pavimento fatto di tavole rivestite anch'esse con della spugna oppure tappetini alti per proteggere dalle cadute gli atleti in gara. Gli scontri erano violenti. La conclusione certa. Come la sconfitta.
L'emozione più durevole nei combattimenti era la riconoscenza che alla fine riusciva a salire sul podio. Al secondo posto la malinconia. Al terzo il desiderio. Agnese lottava, credeva in sé, anche se a volte titubava e inciampava, si arrampicava sulle pareti scoscese di quel fondo per uscirne anche con sorrisi rotti e interrotti. Agnese intravedeva l'azzurro nascosto. Ci sarebbe voluto un po' di tempo, ma lei era diventata una donna di spazio più che di tempo e quindi da questa prospettiva le cose non potevano che andarle bene. Un sorriso dopo l'altro avrebbero rappresentato la “sua” strada assicurandole la risalita. Che fossero sorrisi di lacrime, di gioia, di solitudine, di bellezza, di amicizia… non importava. La sua strada avrebbe rappresentato il suo senso della vita. E il suo consenso a quel senso.
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