Un romanzo, impegnativo, doloroso, di non facile lettura. Sicuramente necessario per comprendere alcuni avvenimenti storici. Si tratta de "Il Re Ombra" (Einaudi) di Maaza Mengiste, finalista al Booker prize. Nel giugno 2021 la giuria del Premio Gregor von Rezzori - Città di Firenze composta da Beatrice Monti della Corte, Ernesto Ferrero Presidente, ha proclamato vincitore del Premio questo romanzo scritto in Inglese da una scrittrice americana nata in Etiopia. La motivazione della giuria: "la vincitrice di quest’anno è Maaza Mengiste, cha ha scelto di scavare nella storia della guerra etiope, e nel farlo ha dissotterrato una miniera di fatti non ancora conosciuti, storie e persone straordinarie”. Il romanzo assai complesso affronta una questione spinosa e rimossa della nostra storia, sfatando il mito degli italiani brava gente che ci eravamo cuciti addosso. Scovando negli archivi, documenti sulla resistenza all'occupazione italiana dell'Etiopia nel 1935, affronta le violenze e le atrocità commesse su donne e bambini durante la guerra d’Etiopia nel '36, ma non solo perché è presente il tema dell’identità di genere, le donne soldato che hanno contribuito attivamente.
Si intrecciano alle vicende le storie di due uomini e due donne. Uno degli uomini è Kidane, fiero capo guerrigliero e due donne: sono sua moglie Aster e Hirut, la giovane orfana che Kidane ha accolto in casa sua. Il secondo uomo è un ebreo italiano di Venezia, Ettore, un fotografo le cui immagini della guerra immortalano il trionfo e le miserie dell’Italia fascista. È, tra le altre cose, centrale è anche la storia di Minim, il cui nome significa “nulla”, come Ulisse era nessuno, e che possiede una prodigiosa somiglianza con l’imperatore Haile Selassie. Su idea folgorante di Hirut, accuratamente rivestito e istruito si presenterà nei villaggi e negli accampamenti per per incitare a resistere. In realtà l’imperatore ha lasciato l’Etiopia per stabilirsi a Bath in Inghilterra. E qui si aprono le prospettive del tema del doppio presente in altre opere letterarie ma soprattutto in "Kagemusha" di Akira Kurosawa, premiato con la palma d’oro a Cannes nel 1980, che l’autrice deve avere avuto presente.
Inoltre Maaza Mengiste ha dichiarato che riteneva che scrivere di guerra avrebbe significato parlare soltanto di uomini. Poi però studiando l’italiano ha trovato alcuni indizi di una presenza femminile nell'esercito etiope. E ha cominciato a seguirne le tracce. Anche da questa parte le tracce erano state rimosse, come rimosse le violenze sulle donne da parte dell’esercito etiope.
Mengiste non si è limitata a mettere insieme i fatti, ma la sua abilità è soprattutto nell’intreccio o forse montaggio per usare un termine cinematografico, visto che il romanzo è costruito su scene molto dettagliate e scavi nel profondo dei personaggi. Storie e immagini che non pretendono di raccontare una versione completa e definitiva della storia, ma lasciare aperte più interpretazione perché la verità sta nella complessità dei fatti che si può osservare solo mettendo insieme i frammenti, come un vaso prezioso che occorre ricostruire ma svelerà sempre i solchi delle rotture.
“Si appiattisce sul pavimento e nella sua mente va crescendo uno spazio pronto a divorare i ricordi di tutto ciò che accadrà quella notte. Anche questo è un modo, le ricordiamo. Anche questa una via d’uscita”. Una scrittura ricca, composita, a tratti eccessiva per i miei gusti, ridondante, ma sicuramente di qualità, resa benissimo dalla traduttrice Anna Nadotti.“Il sole è un lenzuolo di luce alle loro spalle, che pende nella valle sottostante. Nell’azzurro chiaro e vivido del cielo indugia la luna, fievole e spettrale intrusa in questo giorno”...
Il racconto è fatto anche di voci che si sovrappongono, pensieri, rivelazioni parziali, e un coro che commenta gli avvenimenti come in una tragedia greca. Fa da sottofondo musicale la vicenda di Aida che il re ascolta incessantemente, quasi a cercare i motivi di consolazione e di rivalsa, ma soprattutto per espiare la morte di sua figlia che aveva dato in sposa contro il suo volere e poi era morta lasciando a lui tutti i sensi di colpa.
Un libro complesso e commovente, oltre che necessario, denso di riferimenti letterari.
Il romanzo inizia nel 1974 alla stazione ferroviaria di Addis Abeba, e finisce lì, chiudendo in un cerchio un flashback di sei anni, dal 1935, quando Mussolini ordina l’invasione dell’Etiopia un po’ per vendicare la sconfitta di Adua, un po’ per mostrare la sua “forza” con Francia e Gran Bretagna. La narrazione, però, non è lineare: segue più punti di vista, perché Maaza Mengiste non vuole costruire una controstoria a quella del colonialismo italiano, né rappresentare gli italiani come gli unici soldati spietati. E’ consapevole che la storia può essere ricordata attraverso le immagini scelte dai vincitori, come i Romani sui popoli vinti. Qui non si tratta di sculture e bassorilievi, pensiamo alla colonna Traiana che celebra la vittoria sui Daci, ma le fotografie che Ettore Navarra scatta su ordine del colonnello Carlo Fucelli, creando un ossessione visiva, come accadde per la guerra in Vietnam. “Hirut è abbastanza vicina per vedere il ragazzo che corre giù per il crinale , ha le ali ai piedi, il suo torace è un’onda di costole scarne e respiro affannoso. Nella notte che si dissolve , giunge prima in forma di suono: lo schiocco di un ramo, il raschiare di un piede sulle pietre, un sibilo che devia sullo sfondo di una tenue luce arancione. E’ un miraggio che si sposta su alture riarse, ruotando su se stesso per evitare i dirupi, brevi ansiti che ristagnano nell’aria spessa”.
Fotografare la caduta mortale dei prigionieri etiopi lanciati in un burrone: le sue fotografie dovranno catturare la morte nel suo divenire breve per noi, interminabile per le vittime, nell’immagine del mito di un Icaro scagliato verso il Sole.
E così, fino al 1996 nessuno ammise che gli Italiani avevano usato armi chimiche e poté farlo perché le testimonianze erano censurate e le fotografie non erano state scattate: “Diranno che non è vero. Che i loro aerei non volavano sull’armata di Kidane e non hanno lanciato l’iprite sui combattenti, sui fiumi e la terra. Negheranno i bambini morti, le donne scorticate, le acque avvelenate, gli uomini traumatizzati”. Ettore Navarra, “un archivista di oscenità, un collezionista di terrore, un testimone di tutto ciò che lacera la pelle, dissolve la fermezza e lascia esseri umani morti”. Il Re Ombra è soprattutto un libro di corpi. A mio parere il punto debole è forse la storia del fotografo Ettore Navarra; costretto ad abbandonare le fila dell'esercito perché ebreo, nel 36. L'autrice scrive nelle note finali che "i fatti storici e le scadenze temporali sono stati modificati e compressi per esigenze narrative". Ma in Italia le leggi razziali furono introdotte ne '38, una data troppo importante per essere modificata. Navarra vive in quella zona grigia, dove bene e male spesso coincidono e si toccano. E’ il fotografo della guerra e testimonia delle efferatezze commesse dagli italiani sugli etiopi, dunque un oppressore ma anche un oppresso perché ebreo.
Come Maaza Mengiste ricorda, la storia è una questione tra uomini non perché gli uomini ne siano stati e ne siano gli unici attori, ma perché sono stati gli unici ad avere accesso alla narrazione di quella storia. Dunque è necessario che la storia sia narrata dal punto di vista delle donne: “Ciò che sono arrivata a capire è questo: la storia militare è sempre stata una storia maschile, ma ciò non è vero per l’Etiopia, e non è mai stato vero in nessuna forma di lotta. Le donne ci sono state, noi ci siamo ora”.
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