Il racconto del Palio nelle pagine della letteratura

Luigi Oliveto

25/06/2009

Dalle semplici note di viaggio alla malia della Festa
Nel corso del tempo, al fascino del Palio, al suo potere evocante, non sono sfuggiti scrittori e giornalisti di gran vaglia. Cosicché ampia è l’antologia di scritti palieschi che è andata formandosi e che offre, della Festa senese, un ininterrotto e variegato racconto.
Se partiamo dall’Ottocento – epoca da cui, gradualmente, prende forma il mito letterario di Siena – ci accorgeremo che, dopo le prime descrizioni un po’ pittoresche (finanche pedisseque) dei viaggiatori del Grand Tour, le impressioni sul Palio acquistano sempre di più un carattere introspettivo e colto.
Per dare un’idea di questo percorso potremmo proprio cominciare con la descrizione pittoresca di Peter Beckford, il quale, come si legge nelle sue “Lettere familiari” (1805), dopo aver puntigliosamente elencato tutte le fasi del cerimoniale che precedeva allora la corsa, resta colpito dal numero di persone che si riversano sul Campo, e annota che “la Piazza, in cui qualche minuto prima non c'era un'anima, è ora affollata di persone; vi si riversano alla stessa ora da undici differenti vicoli e strade e ciò costituisce senza dubbio uno dei più piacevoli e più straordinari coup d'oeil che abbia mai visto”.
Già più penetrante risulta il racconto di Joseph Forsyt (1813), che tenta un'analisi (non poi così sbagliata) dei senesi (“Ogni abitante della contrada si sente coinvolto nella medesima causa e freme per la vittoria del medesimo cavallo”), concludendo, senza mezzi termini, che “Mai furono unanimi i Toscani se non nell'odiare gli altri stati italiani; i Senesi sono sempre stati d'accordo nell'odiare gli altri Toscani; i cittadini di Siena il resto dei senesi; e nella stessa città la stessa passione ha modo di suddividersi in varie contrade”.
Non appena, invece, ci avvicineremo ad una letteratura “letteraria”, il primo inevitabile incontro sarà con Vittorio Alfieri. L’astigiano, peraltro grande appassionato di cavalli, dal Palio restò molto preso. L’aneddotica narra che, durante i suoi soggiorni senesi, ospite dell’amico Francesco Gori Gandellini, gli piacesse, nottetempo, cavalcare nel Campo, percorrendo più volte l’anello della Piazza. Sul Palio l’Alfieri scrisse due sonetti. Il primo intitolato “Oh quai duo snelli corridori alati”, scritto il 16 agosto 1783 "per i due barberi morti correndo il 15 (d'agosto) nel Palio dei cavalli scossi, o alla lunga per S. Maria d'Agosto"; il secondo, dal titolo “Qual vive? quale dei due corsier la palma?”, composto il giorno dopo "non essendo morto che un solo barbero; l'altro, benché caduto, salvo". Così il poeta descriverà la Mossa: “Eccoli al teso canape schierati; / con altri assai, ma in lor presenza alteri, / né badan pure a que’ minor corsieri, / sol l’un l’altro emulando in vista irati. // Odo già squillar l’acuta tromba, / che al sospirato aringo apre lor via; / già de’ sonanti piedi il ciel rimbomba […].

Dentro e oltre il tempo
Interessanti risultano anche quelle pagine che testimoniano come il Palio, per quanto “fuori dal tempo”, non sia, comunque, immune “dai tempi”. Divertente, al proposito, è lo spaccato storico, d’epoca risorgimentale, fornito da Mario Pratesi nel ricordare la presenza di Massimo D'Azeglio alla corsa del 4 luglio 1858, che suscitò “un gran bucinare, con dispetto dagli uni e con allegrezza dagli altri, quasi il D'Azeglio v'avesse portato l'annuncio che per la dinastia lorenese e per il tedesco era suonata, come allora si diceva, l'ultima ora”. “Il Palio – ricorda Pratesi – veniva opportunissimo a dare sfogo a questi umori contrari. Dalla restaurazione del '49 in poi, il Palio, anche presenti le baionette tedesche che guarnivano la piazza repubblicana, serviva come mezzo d'aprire il cuore italiano: era il respiro dell'antica libertà sotto la servitù. Non appena appariva in piazza il leggiadro paggio tricolore dell'Oca (contrada che comprende tutto l'antico quartiere di Fontebranda), era come un apparire di sole, un battimani infinito a quelle bandiere: e fischi d'odio alla bandiera gialla e nera della contrada della Tartuca: fischi che andavano già s'intende a Sua Altezza, alle monture bianche e ai mirti delle aquile imperiali”. Per citare, invece, certi incanti “oltre il tempo” che il Palio ha saputo suscitare, potremmo chiamare in causa William Heywood, storico e instancabile viaggiatore di cultura cosmopolita, che dimorò a lungo a Siena alla fine dell'Ottocento. Il suo libro “Nostra Donna d'Agosto” resta, tutt’oggi, la più completa introduzione alla storia del Palio. Heywood affermava nel 1898: “Siena dorme in mezzo agli oliveti e alle vigne; i suoi fieri odi e gli amori anche più fieri sono dimenticati da lungo tempo. Eppure due volte all'anno si risveglia alla vita; e il Principe Azzurro che ha il potere di rompere l'incantesimo che la lega non è nient'altro che il Palio”.
Successivamente, pure Aldo Palazzeschi, in un articolo del 1926 apparso sul Corriere della Sera, coglierà benissimo la malìa di Siena, così come l'immagine della piazza percorsa dall'affanno di una febbre collettiva: “L'ammasso umano compatto contratto rattrappito, nel crepuscolo denso, sangue e viola, si disfà. [...] Ma su tutto un sorriso, io pensavo il dì seguente, dopo una scena di colore, come non vidi mai più bella, mentre il treno correva portandomi lontano da quelle mura che un miracolo conservava ai nostri occhi, e dove i più schietti parlatori d'italiano giuocavano con tanta grazia alla discordia, astutamente solleticando l'istinto profondo che dorme nell'uomo e sonnecchia. E pensavo a quando la discordia non era un giuoco fra quelle mura, ma vera, insana e insanabile, barbara e spietata”.

Il Palio è Siena tutta
Più ci inoltriamo nella letteratura del Novecento e maggiormente si trovano pagine che del Palio sanno cogliere il senso profondo. Tommaso Landolfi, ad esempio, in un reportage del 1939, lascia intendere di aver capito molti aspetti della festa senese, osservando “che il Palio non è una farsa, non è una coreografia cui si può assistere in perfetta indifferenza, è molto, molto di più. [...] Il Palio è Siena tutta colla sua civiltà continua, coll'immanenza delle sue alte passioni”.
Con altrettanta efficacia Piero Bargellini saprà raccontare storia e sentimento delle contrade e del Palio: “Nel pieno meriggio cinquecentesco, Siena non era ancora matura per cadere spontaneamente nelle mani del dominatore della Toscana. Il suo picciòlo, costituito dalle gloriose costituzioni repubblicane, si manteneva ancora verde, bene attaccato al tronco d'una saldissima tradizione comunale. Bisognò tagliarlo con la spada; strapparlo con la violenza. Da ciò l'offesa, la ferita, lo strazio della disperata resistenza, il dolore della fatale resa. Da quell'offesa, da quella ferita, da quello strazio e da quel dolore, nacquero le Contrade; nacquero come protesta contro la prepotenza, come lenimento alla ferita, come consolazione al dolore, come riaffermazione d'indipendenza e anche come speranza di rinascita. […] Ecco perché il Palio non fu e non è un ‘gioco’ simile ad altri o protratti nei secoli o riesumati in tempi recenti. Il Palio significò la sopravvivenza d'un ideale e di un ordine, conculcato, ma non domato; soppresso, ma non estinto”.
Alcuni "lampi" della Festa senese irrompono persino nei vertiginosi e inafferabili “Cantos” di Ezra Pound (“e laggiù hanno fatto il loro Palio”), mentre l’approccio poetico di Corrado Govoni (1950) è tutto giocato in una metafora che fa del Palio e dell'esercizio poetico una medesima corsa sfrenata: “Ma tu corri lo stesso, o maledetta, / sputa l'anima e corri, o poesia, / il traguardo è già in vista: / corri anche solo con la spennacchiera / della mia tradita primavera!”.
Nel corso degli anni, dunque, il Palio ha avuto, senza dubbio, cronisti di pregio. Per continuare potremmo citare Vasco Pratolini (che racconta di una corsa vista dal tetto di un palazzo attraverso gli occhi di una graziosa adolescente senese), Guido Piovene (“Il Palio dunque è una vera guerra simbolica, in cui alla vittoria concorrono la forza, la diplomazia, la ricchezza”), Geno Pampaloni (che sulla stessa linea interpretativa di Piovene, afferma che “il Palio non è una gara sportiva, ma ‘politica’; per poi aggiungere che “la Festa è stupenda… orgoglio della città-patria”). Carlo Cassola, in un articolo del 1946, manifesta il suo stupore nel vedere l’anacronistica passione dei senesi e stabilisce che “fin che ci saranno degli uomini che indosseranno i vecchi costumi rinascimentali senza vergognarsi, ma anzi con fierezza e con gioia, non ci sarà pericolo che la secolare tradizione del Palio invecchi”.
Se poi arriviamo a tempi più recenti, non può certo sfuggire il romanzo di Fruttero e LucentiniIl Palio delle contrade morte” (1983) che, a nostro avviso, interpreta sottilmente quella specie di gioco dei destini incrociati fra viventi e trapassati (ove gli uni divengono fantasmi degli altri) che il Palio sembra davvero racchiudere. Infatti il racconto, attraverso una vicenda sospesa fra il poliziesco e il fantasy, appare proprio immerso in quell’aura spiritica della Piazza dove giusto il "fantasma" di una storia sopravvive a se stesso nel tempo: “Ci hanno voluti qui [...] come testimoni, per non essere i soli viventi ("viventi"?) su questa piazza, su questa terra, a veder correre questo Palio delle loro risuscitate contrade. [...] Avevano bisogno di noi per dar corpo alla loro corsa fantomatica, per in qualche modo confermarla, sostanziarla… toglierla dal limbo del virtuale, del mero immaginario”.
Quanto alla poesia, non c’è dubbio che il testo sicuramente più noto e più "alto" che nella storia della letteratura sia stato dedicato alla Giostra senese è quello di Eugenio Montale, intitolato “Palio”, compreso nella raccolta poetica “Le Occasioni” e datato 1939. Si tratta di un componimento estremamente complesso e niente affatto "d'occasione", in cui ogni immagine o suono della piazza (“un giro di trottola”, “nella purpurea buca”, “un tumulto d'anime”, “dalla torre cade un suono di bronzo”, “la sommossa vastità”, “tamburi che ribattono a gloria di contrade”, “il ghirigoro d'aste avvolte … che s'incrociano alte e ricadono in fiamme”) rimandano a più universali e tormentati destini. E, quindi, a interrogativi di cui "tu [cioè Clizia, la donna-angelo delle “Occasioni”] “ritieni tra le dita il sigillo imperioso ch'io credevo smarrito". Così il Palio (“giro di trottola”) diventa l'inesorabile ciclicità della vita; la donna amata un traguardo.
Non meno intensi e tesi sono però anche i versi di Mario Luzi nel testo poetico dove l’abbacinante policromia della Piazza è per il poeta metafora di molteplici accecamenti: “Finché nel furore policromo / del bruciante mulinello / mi guarda Siena / da dentro la sua guerra, / mi cerca dentro con gli occhi / addannati dei suoi veliti / percossa dai suoi tamburi / trafitta dai suoi vessilli […]”.

Il Palio nel secondo millennio
Al debutto del nuovo secolo, le pagine letterarie più interessanti scritte sul Palio sono quelle raccolte nel volume (più Dvd) “Visioni di Palio” (2004) a cura di Sergio Di Pasquale Luci, Anton Giulio e Siretta Onofri, Senio Sensi. Giusto in questo libro troviamo un Andrea Camilleri che si chiede se possa aver senso “oggi che siamo davanti all’Europa” un evento “che spezzetta una piccola città come Siena in tante piccole contrade”. No – rassicura Camilleri – non è anacronistico, perché “in fondo io sono felice che sia un sarto europeo a confezionarmi il prossimo vestito che indosserò. Però se la mia biancheria intima è del mio paese, io mi ci trovo più a mio agio dentro quel vestito, e quel vestito mi cade meglio. Sicuramente”.
La dimensione sacra della Festa senese affascina Barbara Alberti, soprattutto per quella “Madonna del Palio, che vola sopra le teste nel suo stendardo. E’ una Madonna – dice la scrittrice – che capisce l’uomo, una Madonna che ci accoglie così come siamo, nudi, sudati, felicemente disperati, scomposti, urlanti”.
A mettersi nei panni dello straniero che vorrebbe capire subito e fino in fondo il gioco del Palio, è Marco Lodoli, il quale spiega anche il momento in cui, poi, tutto appare finalmente comprensibile: “così vaghiamo tra i vicoli delle Contrade, sperando in una rivelazione che non arriva. E poi siamo in Piazza, quando i cavalli scattano alla partenza, la folla urla e il cielo è azzurro e oro, e d’improvviso tutto, inspiegabilmente, ci appare chiaro”.
Melania Mazzucco è ammaliata dall’atmosfera che si crea durante la benedizione del cavallo, perché “il cavallo non si è mai chiesto cosa si vince. Cosa si perde. Qual è la posta in Palio. E’ probabile che non capisca il latino e che non sappia nemmeno cosa è un crocifisso. Ma il cavallo non sa di non saperlo. Nessuno sa cosa sognano i cavalli”. Sempre ai cavalli si rifanno le parole di Erri De Luca allorché scrive: “i loro zoccoli battono il ritmo del cuore degli uomini quando è in tumulto. Il galoppo degli zoccoli è il tamburo del sangue”. Mentre nei versi giocosi (ed equini) di Giosuè Calaciura, ecco “Come dal mare mosso / Emerge un cavallo scosso. / Ha sulla fronte un segno / del Campo fece subito il suo regno. / Sin dalla tratta sembrava bestia matta”.
Ma i cavalli sono anche “l’odore” del Palio. Lo evidenzia Aurelio Picca, annotando: “Nella notte dell’Assunta, l’odore degli animali in Piazza del Campo, è superiore a ogni profumo”. E nell’aria sospesa della vigilia – prosegue Picca – si avverte una “tregua pungente prima dello scoppio della passione più bella del mondo” per poi urlare: “non morirai mai felicità immensa! Non ti perderai mai, attimo che fuggi per sempre!”.
Gli occhi di Marcello Fois privilegiano, invece, il “dietro le quinte”, indagano gesti, espressioni, parole a fior di labbra di capitani e mangini, loro che “parlano senza parlare, fanno partiti che partiranno: d’aspettare alla rincorsa, di far due giri senza nerbo, di dar la rinserrata all’avversaria, di mantenerla nonna... E poi che la loro contrada non arrivi seconda, che arrivare secondi è peggio del sole che non sorge”.
E’ ormai cosa nota anche ai non senesi: non ci sarebbe il Palio se non esistessero le Contrade. E proprio quel sentimento intenso e condiviso che la contrada rappresenta è intuito molto bene da Enzo Siciliano, laddove dice: “Nel grande cerchio delle mura della città si creano tanti piccoli cerchi quante sono le contrade, e tanti maschi divisi saranno, con le loro donne, chiusi nel proprio cerchio a covarsi la vita che sfoga poi nella corsa, nel lampo del palio due volte l’anno. […] Sei la tua contrada in vita e morte: e il segno, i suoi colori ti accompagneranno in fraternità coi tuoi contradaioli, pure nella solitudine del sepolcro. La tua contrada dipinge il tuo destino”.
Se Fruttero & Lucentini azzardarono intorno al Palio la trama di un romanzo poliziesco, il giallista Carlo Lucarelli, da par suo, non poteva che immaginare il Palio quale scena del delitto perfetto. Ovviamente sparando in perfetta sincronia con lo scoppio del mortaretto “e andarsene indisturbato quando la Contrada che ha vinto attraversa le vie della città cantando a squarciagola dietro al palio appena conquistato”.
In Enrico Ghezzi, infine, si avverte quasi una sorta di sgomento dinanzi all’accumulo di pathos che implode e si brucia nella fulmineità della corsa: “E tutto questo per una cosa che dura poi veramente poco. Un colpo di freccia. E’ terribile quanto ci sia di vitale e mortale. E’ come se la vita fosse l’attesa di un momento che non esiste. Che è una linea, che è un attimo, un istante. Il momento in cui si verifica il morire”.
Qui si ferma la nostra antologia letteraria a tema Palio, ma non prima di averla aggiornata all’oggi con i martellanti versi di Alda Merini che hanno accompagnato il drappellone di Ugo Nespolo dipinto per il Palio dell’Assunta 2007. Anche in questo testo emerge la densità visionaria, la tensione religiosa che contraddistingue quasi tutta la produzione poetica della Merini: “Udite, udite / stanche contrade / messaggeri d’amore / e di guerra che correte / nel nome della Vergine / in bocca ai leoni. […] Bevete il vino / e acqua per incoraggiarvi / e sperate che poi vi / abbandoni per la gloria della vita”.
La gloria della vita, appunto. Ecco il tema che ritorna ogni qualvolta si scriva di Palio: cioè il suo continuo alludere, attraverso il gioco, ai sentimenti dell’umano esistere. Una Festa, dunque, che della passione, della vita e del suo contrario è metafora, tenace rappresentazione, ininterrotto racconto.

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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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