21/02/2014
Non si contano i contributi che Alessandro Falassi ha dato, con rigore scientifico e partecipe affetto, alla comprensione del Palio di Siena e di tante schiette tradizioni toscane. Esce di scena all’improvviso – era nato a Castellina in Chianti nel ’45 – suscitando dolore e sgomento ben oltre i confini della sua terra, amata in ogni risvolto, conosciuta e rovistata in ogni piega. Nelle sue pagine si combinavano in equilibrio singolare le osservazioni ricavate con un curioso sguardo interno ai fenomeni descritti e l’applicazione di categorie antropologiche talvolta ostiche e astruse. Laureatosi a Firenze in sociologia, Falassi seguì a Parigi le lezioni di Lévi-Strauss per poi approdare a Berkeley, dove acquisì le armi del mestiere. Il libro sul Palio, La terra in piazza, scritto con Alan Dundes, apparso nel ’75, ha rivoluzionato il modo di vedere la festa senese, sottraendola al patriottico e ripetitivo culto degli eruditi e promuovendone un’interpretazione moderna e anticonformista. Il suo stile nell’esercitare e insegnare la professione di antropologo all’Università per stranieri di Siena, della quale è stato uno dei pilastri, ambiva a spiegare con chiarezza, a far riflettere su uno spettacolo, sul significato di un gesto, sui moduli di un canto, sulla ricchezza inestinguibile di un lessico antico. Pur così attento agli elementi simbolici e ai concetti della psicanalisi, Alessandro non si trincerava dietro gli specialismi accademici. Era al tempo stesso, inimitabilmente, cosmopolita e contradaiolo – dell’Istrice fu anche Priore –, appassionato e distaccato, immerso con compiaciuta fierezza nei riti secolari e ironico narratore di usanze e bizzarrie. E mise sempre, con disinteresse, al servizio dei cittadini e del Comune in quanto istituzione il sapere accumulato, che voleva anche fosse utile, divertente, gustabile. Discreto e equilibrato nei giudizi, Falassi si è attenuto ad un senso della misura d’altri tempi. In uno dei suoi ultimi lavori non ha mancato di tirare una pungente frecciata contro quanti tramutano la “senesità” in “effimera bandiera elettorale”. Della sfrenata Carriera senese enfatizzò la sottintesa febbre erotica, scandalizzando più d’un benpensante. Con Per forza e per amore (1980) ci regalò un canzoniere plebeo di sfrontata arguzia. Indagò anche su Caterina Benincasa, La Santa dell’Oca (1980), esaltandone i tratti di icona confidenziale, “che fa piovere – scrisse – sopra le sue feste perché feste non ne vuole”. Oltre i titoli della vasta e imprescindibile bibliografia, nel tristissimo giorno dell’addio, tornano in mente un’infinità di generose indicazioni. Chi di Alessandro Falassi scoprì, ammirato, il talento fin da quando spiccava tra i più motivati allievi del Liceo classico Piccolomini avverte il peso di una tristezza che non sa rassegnarsi al silenzio di una voce amica, affabile e autorevole. Negli anni aveva conservato un accento giovanile e disincantato. Per tutti era – resterà –, semplicemente, il Falassi, campione unico nel conciliare l’attaccamento al patrimonio più nostro con la capacità di proporlo agli altri come un fecondo tesoro da decifrare insieme con gioia.
Articolo pubblicato sul Corriere Fiorentino del 21 febbraio 2014
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