Maurizio Bettini, scrittore e classicista di fama, non fa più il presepio. Ma si direbbe che ne provi un’inestinguibile nostalgia e che, alla fine di un’indagine filologica minuziosa e fitta di acuminate notazioni antropologiche, ritrovi, proprio rammentando l’entusiasmo della sua infanzia, le ragioni sentimentali profonde alla base della costruzione fantasiosa di un luogo mitizzato a piacere. Secondo periodi e culture il presepio ha assunto le forme più diverse e l’indagine che Bettini propone finisce per coinvolgere tutti, credenti o meno, atei dichiarati o nichilisti convinti, perché, anche sulla scorta di una voluminosa bibliografia, indugia divertito nel ricercare la provenienza dei protagonisti della santa notte, i mille dettagli di una rappresentazione cresciuta per strati, attingendo a testi sacri, tradizioni dotte e popolari credenze. Scrivere del presepio è stato per lui un po’ come rifarlo, con la testa e col cuore, senza patetismi ma anche non nascondesi dietro un’impossibile indifferenza. Il segreto delle riuscita del suo singolare “Il Presepio” (Einaudi, Torino 2018, pp. 180, € 19) sta nell’abilità con cui Maurizio ha saputo intrecciare con eleganza le doti del narratore, il respiro del saggista e il bagaglio del filologo classico.
In una prima parte non esita a evocare l’incanto che provava da ragazzo, quando architettava con ingenuità la scena. Subito enuncia gli interrogativi che sono via via insorti: abbandonando dotti riferimenti e disquisizioni esegetiche condite di teologia, scoprirà che la sua esperienza personale vale quanto e forse più delle riflessione su analoghe consuetudini in auge tra i pagani: «Per mezzo di quelle figurine – scrive – si celebra un famigliare, privato rito natalizio, certamente, ma nello stesso tempo si manifesta la propria fedeltà, la propria memoria e la propria gratitudine nei confronti dei personaggi che quelle figurine rappresentano». Si tratta di una fedeltà espressa sovente con modestia di mezzi, per un intimo bisogno di ritrovarsi fanciulli e affermare legami indistruttibili. Nella liturgia cattolica il presepe, secondo il lessico più raffinato, esalta il riconoscimento dell’unico Dio da adorare. È una rigorosa affermazione del monoteismo che in altra sede l’autore aveva sottoposto a critica per l’impronta teocratica che conteneva o poteva contenere ad una lettura immediata e superficiale. Osservando bene, la scena è popolata da pastori e da artigiani, da donne affaccendate in compiti domestici e da uomini impegnanti in duri lavori. Aggrega i mestieri più diversi, immerge i gesti della fatica quotidiana in un’atmosfera di favolosa sospensione, accomuna poveri e potenti con disinvoltura interclassista e multietnica apertura.
Lo spunto iniziale scaturì – dice Bettini – da una pagina di Giorgio Agamben, che del presepio scrisse (1978) che «ci mostra precisamente il mondo della fiaba nell’istante in cui si desta dall’incanto per entrare nella storia». Altri diranno che si tratta semmai di una storia vestita coi colori e gli espedienti di una fiaba. Occorrerà, allora, rifarsi alle fonti che nei secoli hanno ispirato la fantasia degli artefici per capire i lento formarsi dell’immaginario dominante. E individuare la semantica che si condensa nella parola presepio: dal latino praesepe, recinto, «ciò che chiude davanti» (prae) con una siepe (saepes): gli animali vi si aggirano liberi a manducare. E mangiatoia è sineddoche – parte per il tutto –, il punto più ambito, la crèche dei francesi. Vien da chiedersi da dove arrivi folla che si dirige verso la capanna o la grotta che ospita Gesù, “Cristo Signore”. E su come l’ambiente che fa da cornice abbia preso consistenza. Se si stesse al laconico Matteo ci si sbrigherebbe alla svelta, non ci sarebbero elementi con i quali costruire un presepio en pleine air.
A proposito dei Magi che giungono da un lontano Oriente, e sarebbero soltanto più tardi fissati a tre e insigniti (da Tertulliano) del solenne titolo regale, Matteo annota semplicemente che entrarono nella casa dove l’affannata coppia aveva trovato conforto. Una casa, forse di quelle che oggi diremmo da media borghesia e nulla di più eccitante. È Luca che, successivamente, scrivendo più o meno tra il 65 e il 70, delinea il fulcro dell’umile ribalta: non una linda abitazione qualsiasi, ma una mangiatoia, che attrae i pastori a guardia del gregge nella buia notte d’improvviso squarciata dalla luce abbagliante della cometa. E il resto? Il bue e l’asino entrano più tardi e son ritagliati da un inciso dell’apocrifo dello pseudo-Matteo e avvalorati dal richiamo alla profezia di Isaia: «Il terzo giorno dopo la nascita del Signore, Maria uscì dalla grotta ed entrò in una stalla: mise il bambino nella mangiatoia e il bue e l’asino l’adorarono». L’autore ha conciliato la tradizione orientale che parlava di una grotta e poteva indurre a tracciare un parallelismo col culto di Mitra e quella occidentale, che invece parla di una stalla. Il passo di Isaia è implicitamente richiamato a sproposito. Oltretutto c’è un vistoso errore di traduzione: nel testo greco dei Settanta è scritto che l’infante sta «in mezzo a due età», che son diventate «due animali» per assonanza con il genitivo plurale dei due termini. Le «risonanze scritturali» sono numerosissime e generano presenze e movimenti. La parola diventa figura o statua, si incarna in oggetti verrebbe da dire, parafrasando un attacco celeberrimo. La parola germina figure. Gesù non è deposto in una culla al pari d’un qualunque mortale. Divide con altri personaggi mitologici l’esser posato su un attrezzo non banale. Al pari di Zeus, Dioniso, Ermes. Per molti sarà un líknon, uno staccio, una cesta. Codeste simiglianze non son gettate là per un gusto di dissacrante provocazione. Son citate per cogliere in chiave antropologica assonanze e rispondenze nelle narrazioni del sacro.
Come si sa, l’idea di allestire un vivente presepio risale al 1223. Fu Francesco ad adunare a greggio fedeli che si prefiggessero di render visibili «con gli occhi del corpo» i disagi dell’infanzia di Gesù. Dunque il presepio assunse il valore di un tangibile exemplum dal quale trarre dettami di un’etica della povertà e della carità. Dopo quella prima rappresentazione la scena che segna l’inizio d’una nuova era è stata modulata in un’infinità di guise. Fa, magari, venire in mente i sigillaria della romanità o le statuine dei lalaria domestici che onoravano gli antenati. Maurizio, munito di lapis e taccuino, si è recato a visitare in laico pellegrinaggio una quantità di presepi: uno ortodosso, a Firenze, gli dà sconforto per una Madonnina appartata e meditativa, stravolta più che partecipe. In molti musei si sofferma davanti a presepi sontuosi, trionfi barocchi che reclutano tra gli estasiati visitatori anche personalità famose del nostro tempo. A Napoli la tradizione si perpetua rinnovandosi con inesauribile fantasia baroccheggiante. Se museificati, i presepi hanno una fastidiosa inerzia, da reperti archeologici. Se non si è animati dalla certezza d’una fede che senso ha cimentarsi nell’impresa del presepio? L’autore confessa che oggi non si arrabatta più con le statuine, ma ammette che scrivere del presepio è stato un esercizio spirituale: imboccare a ritroso una sorta di palinodia, un sentiero che s’è fatto più stretto e più intricato. Non meno affascinante e coinvolgente.
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