Il presente decentrato. Gli studenti in una scuola da vivere in funzione dell’avvenire

Francesco Ricci

14/11/2016

Un tempo la scelta della scuola secondaria superiore era figlia, in larga misura, del colloquio finale tra gli insegnanti di terza media e la famiglia dello studente. Attitudini, capacità, interessi personali, erano gli argomenti solitamente impiegati per indirizzare un giovane a un tipo di scuola anziché a un altro. La scelta, una volta operata, schiudeva le porte a un quinquennio che possedeva un suo intrinseco significato, una propria autonoma ragion d’essere. In questo lasso di tempo, lo studente avrebbe approfondito alcune materie, ne avrebbe affrontate di nuove e, inoltre, avrebbe stretto rapporti umani, destinati a durare, magari, per il corso intero della sua esistenza. Il nesso tra scuola secondaria e università, invece, era labilissimo –  anche nel caso del liceo classico e del liceo scientifico –, al pari di quello tra scuola secondaria e mondo del lavoro, per quanto concerne gli istituti tecnici: ad entrambi (all’università, al lavoro) si sarebbe cominciato a pensare seriamente soltanto dopo l’esame di maturità. Forse è anche per questo che io ho profondamente amato certe lezioni (e altre, con pari ardore, le ho odiate): perché erano interamente risolte in sé stesse. Mai, cioè, mi è passata per la testa l’idea che fossero ore utili, o perfettamente inutili, nell’ottica di una migliore scelta universitaria. Uno scopo, infatti, è capace di suscitare emozioni di un’intensità sconosciuta a ciò che è un mero strumento. E per me non solo le singole discipline, ma la scuola nel suo complesso, è sempre stata un fine, mai un mezzo per affrontare gli studi futuri.

L’introduzione dell’orientamento universitario e, più di recente, dell’alternanza scuola/lavoro, sta mutando per sempre la fisionomia dei licei e degli istituti tecnici, poiché concorre, con le nuove tecnologie, a cambiare l’immaginario e il sensorio (il modo di percepire il tempo e lo spazio) degli studenti. Il presente – questo è il messaggio che irresponsabilmente viene fatto passare – ha senso unicamente se si connota come prodromo del futuro, come apprendimento di competenze – termine che la scuola, al pari di profitto, ha derivato dall’ambito lavorativo – che torneranno utili una volta iniziato il cammino universitario. E così i cinque anni delle superiori si sono trasformati in quella fase del percorso formativo in cui lo studente acquisisce una certificazione relativa alla conoscenza delle lingue, inizia, già in terza, a seguire lezioni universitarie, simula test d’ammissione alle Facoltà a numero chiuso, in taluni casi li sostiene e già nel mese di aprile sa se il prossimo anno sarà alla Bocconi o al Politecnico, si divide tra musei, aziende, ditte, case editrici, biblioteche, trascorrendo circa duecento ore, nell’arco di un triennio, a contatto con chi è già inserito nel mondo del lavoro. Di conseguenza, il presente degli studenti non soltanto è divenuto un presente “di corsa”, come lo chiamerebbe Zygmunt Bauman, ma è anche un presente decentrato: viene vissuto in funzione dell’avvenire.

Eppure, i dati di cui si dispone ci dicono che tanto l’orientamento universitario quanto l’alternanza scuola/lavoro stanno miseramente mancando l’obiettivo per cui erano stati pensati. Sempre più basso è, infatti, il numero dei diplomati che si iscrivono all’università (circa sei su dieci); sempre più alto quello di chi abbandona o cambia corso di laurea già dopo il primo anno (circa due su dieci); esigua la percentuale degli studenti che esprimono un parere non dico positivo, ma almeno soddisfacente, in relazione alla loro esperienza di lavoro. A fronte di tutto ciò, cosa resta ai giovani? Resta la percezione – in molti casi la convinzione – che l’autentica motivazione dello studio debba essere meramente utilitaristica, meramente strumentale. Non nel senso, però, condivisibile, che le superiori consentono di acquisire un metodo e delle conoscenze, che torneranno utili in futuro; piuttosto, in quello che nega dignità e significato al primo termine, il mezzo, conferendo importanza e valore esclusivamente al secondo, lo scopo, dove il mezzo sono gli anni liceali e lo scopo sono gli anni universitari. Che senso può avere, allora, soffermarsi a lungo a indagare il pessimismo dei Greci, “l’impossibile giustificazione della storia” di Virgilio, la meditazione di Solimano, re dei Turchi, sulla vita e sulla morte, nel libro conclusivo della “Gerusalemme liberata”, l’esortazione di Simone Weil a riconoscere e a difendere i bisogni dell’anima, a partire da quello di radicamento? Per chi vive continuamente concentrato sul domani (“cosa diventerò dal punto di vista della professione?”), tutto ciò che ancora al presente e che privilegia la dimensione della profondità (la conoscenza di sé, la conoscenza della natura umana) a scapito di quella dell’ampiezza (il dotarsi di strumenti, di competenze digitali e linguistiche, di capacità) si converte in una perdita di tempo, dannosa e intollerabile. E così le cose che veramente contano sono destinate a rimanere fuori dalla classe.  
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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