Il Polacco. L’austero pianista incontra la sua Beatrice

Luigi Oliveto

26/10/2023

“Il Polacco”, l’ultimo libro del Nobel J. M. Coetzee, è un romanzo d’amore senza parlare troppo d’amore, o tantomeno senza farlo secondo i canoni del genere. Storia tra un pianista polacco settantenne e una signora di mezza età della borghesia barcellonese. Lui, “il polacco” (così detto perché il nome risulta ai più impronunciabile per le troppe w e z) è un severo interprete di Chopin. A quelle partiture non concede alcuna romanticheria, tanto da lasciare spesso il pubblico deluso. Lei, Beatriz, è una donna benestante, colta, “intelligente ma non riflessiva”, con un marito che le vuole bene, che non interferisce nelle sue attività benefiche e culturali, che da diversi anni non chiede più sesso (e a lei va benissimo così). L’incontro con il pianista avviene a Barcellona. Beatriz fa parte del circolo che, una volta al mese, organizza concerti alla sala Mompou, nel quartiere gotico. Biglietti a caro prezzo per un pubblico di ricchi e dai gusti conservatori. A invitare il Polacco era stata Margarita, che in prima persona cura gli eventi musicali. Però il giorno del concerto telefona all’amica Beatriz dicendole che è malata, è caído enferma, e chiede a lei di poter seguire i dettagli organizzativi della serata, compresa l’ospitalità del pianista. Fin da quando il pianista sale sul palco, il giudizio di Beatriz su quell’omone dai capelli bianchissimi e con il ciuffo ondulato è piuttosto netto: “Che poseur! Un vecchio clown!”. Dopo l’ultimo pezzo pure lei si unisce all’applauso “gentile ma non entusiastico” del pubblico. Quindi, cena in un ristorante italiano insieme a una coppia di soci del circolo, e lì sembrerebbe finire tutto. Se non che, dopo qualche mese, il Polacco è nuovamente in Spagna e chiede a Beatriz di poterla incontrare: “Sono qui per te”. Scomoda persino Dante per dirle che, in similitudine all’altra ben nota Beatrice, lei è divenuta il senso del suo esistere, la risposta ad ogni interrogativo. La invita a trascorrere qualche giorno a Maiorca. Beatriz non ha nessuna attrazione per quel settantenne cadaverico, freddo, inespressivo. Né intende diventare Musa di alcuno. Comunque la vacanza insieme a Maiorca ci sarà, a inscenare una storia d’amore incerta e improbabile come la balbuzie dei loro dialoghi in lingua inglese. Poi più niente davvero. Alla morte del pianista, nella sua casa di Varsavia, verranno trovate ottantaquattro poesie scritte in polacco. Forse traducendole (l’alternativa sarebbe bruciarle) Beatriz potrebbe capire meglio chi sia stata lei per lui e viceversa. Il fatto che siano scritte in un alfabeto a lei sconosciuto acquista un significato che va oltre l’aspetto meramente linguistico, perché ciò che necessita di traduzione non sono solo le parole. J. M. Coetzee, al pari delle esecuzioni austere del pianista, procede nel suo racconto in maniera asciutta (talvolta ironica), in una sequenza di blocchi narrativi segnati da paragrafi numerati. E in poco più di cento pagine scrive un prodigioso romanzo su quanto di indecifrabile, teneramente ambiguo e ingovernabile ci sia nelle nostre esistenze.
 
***
 
15. La prima volta che vede il Polacco in carne e ossa è quando lui va verso il palco, fa un inchino e si siede allo Steinway.
Nato nel 1943, dunque ne ha settantadue. Si muove con agilità; non dimostra i suoi anni.
È colpita dalla sua altezza. Non solo alto ma grande e grosso, con un torace che sembra voler scoppiare dalla giacca. Chino sulla tastiera, sembra un enorme ragno.
Difficile immaginare che quelle mani così grandi riescano a tirar fuori qualcosa di dolce e delicato dalla tastiera. E invece ci riescono.
Forse i pianisti hanno un vantaggio innato sulle donne: mani che in una donna apparirebbero grottesche.
Finora non aveva pensato granché alle mani, le mani che fanno qualsiasi cosa per i loro padroni come serve obbedienti e non pagate. Le sue mani non sono niente di speciale. Mani di una donna che presto avrà cinquant’anni. A volte lei le nasconde senza parere. Le mani tradiscono l’età, come la gola, come le pieghe delle ascelle.
Ai tempi di sua madre, una donna poteva ancora comparire in pubblico con i guanti. Guanti, cappelli, veli: ultime tracce di un’epoca svanita.
16. La seconda cosa che la colpisce del Polacco sono i capelli, così insolitamente bianchi, così insolitamente pettinati in un ciuffo ondulato. È così che si prepara ai concerti, si chiede: seduto nella sua stanza d’albergo, con il barbiere che si occupa della capigliatura? Ma forse lei è maligna. Tra i maestri della sua generazione, gli eredi dell’Abbé Liszt, una bella chioma, bianca o grigia, dev’essere l’equipaggiamento comune.
Anni dopo, quando l’episodio del Polacco sarà diventato storia, lei s’interrogherà su quelle prime impressioni. Crede, nel complesso, nelle prime impressioni, quando il cuore esprime il suo verdetto, tendendo le braccia allo sconosciuto oppure indietreggiando. Il suo cuore non ha teso le braccia al Polacco quando lo ha visto camminare sul palco, ravviarsi la chioma e attaccare la tastiera. Il verdetto del suo cuore: «Che poseur! Un vecchio clown!» Ci sarebbe voluto un poco perché superasse quella prima reazione istintiva, per vedere il Polacco in tutta la sua individualità. Ma poi che cosa vuol dire davvero «tutta la sua individualità»? Tutta l’individualità del Polacco non includeva forse essere un poseur, un vecchio clown?
17. Il concerto di quella sera è in due parti. Nella prima metà una sonata di Haydn e una suite di danze di Lutosławski. La seconda metà dedicata ai ventiquattro Preludi di Chopin. Lui esegue la sonata di Haydn con fraseggi puliti e frizzanti come a dimostrare che mani grandi non vuol dire mani goffe, ma che al contrario possono danzare insieme, con la delicatezza di quelle femminili.
I piccoli pezzi di Lutosławski lei non li conosceva. Le ricordano Bartók, le sue danze popolari. Le piacciono.
Le piacciono più dello Chopin che segue. Il Polacco si sarà pure fatto un nome come interprete di Chopin, ma lo Chopin che conosce lei è più intimo e più sottile di quello che presenta lui. Lo Chopin di Beatriz ha il potere di trasportarla fuori dal Barri Gòtic, fuori da Barcellona, nel salotto di una grande, vecchia casa di campagna nelle remote pianure polacche, mentre una lunga giornata d’estate volge alla fine, e la brezza muove le tende lasciando entrare il profumo delle rose.
Lasciarsi trasportare, perdersi in quel trasporto: un’idea sorpassata, con ogni probabilità, di ciò che la musica fa per gli ascoltatori – sorpassata e probabilmente anche sentimentale. Ma è quello che lei vorrebbe proprio quella sera, e quello che il Polacco non le dà.
L’applauso, dopo l’ultimo dei Preludi, è gentile ma non entusiastico. Lei non è la sola venuta per ascoltare Chopin suonato da un vero polacco a essere rimasta delusa.
Come bis, un omaggio ai suoi ospiti, lui offre un breve pezzo di Mompou, suonato in modo molto astratto, poi, senza nemmeno un sorriso, scompare dal palco.
Sarà di cattivo umore oggi, oppure è sempre così? Chiamerà a casa per lamentarsi dell’accoglienza ricevuta da quei rozzi dei catalani? Esisterà una Madame Polacco a casa per ascoltare le sue rimostranze? Non ha l’aria di un uomo sposato. Sembra uno con una serie di ingarbugliati divorzi, e con le ex mogli che digrignano i denti, sperando che le cose gli vadano male.
18. Il Polacco, a quanto pare, non parla francese. Ma parla inglese, anche se non benissimo; quanto a lei, Beatriz, dopo i due anni passati a Mount Holyoke non ha problemi con la lingua. I poliglotti Lesinski perciò sono superflui. Ma nondimeno benvenuti, per sollevarla un po’ dal peso dell’ospite da intrattenere. Ester soprattutto. Ester sarà pure vecchia e curva ma è ancora molto acuta.
19. Lo portano al ristorante dove abitualmente portano gli artisti, un locale italiano di nome Boffini con un po’ troppo velluto verde scuro negli arredi ma con un bravo chef milanese.
Una volta seduti, Ester è la prima a parlare. – Dev’essere difficile, maestro, tornare sulla terra dopo essere stato tra le nuvole con la sua musica sublime.
Il Polacco inclina il capo senza assentire né dissentire a proposito delle nuvole dove è stato. Da vicino è meno facile nascondere i segni dell’età. Ha le borse sotto gli occhi, la pelle della gola cadente, il dorso delle mani chiazzato.
Maestro. Meglio affrontare subito la questione dei nomi. – Se posso, – dice lei: – Come dobbiamo chiamarla? Noi, in Spagna, troviamo difficili i nomi polacchi, come ormai avrà capito. E non possiamo andare avanti a chiamarla «maestro» tutta la sera.
– Mi chiamo Witold, ...
 
[da Il Polacco di J. M. Coetzee, trad. di Maria Baiocchi, Einaudi, 2023]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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