Il pianista di Yarmouk. Un atto di fede nell’uomo e nell’arte

Luigi Oliveto

12/04/2018

In quei mesi del 2015 due immagini fecero il giro del mondo attraverso il Web. Il corpicino inerte di Alan Kurdi, tre anni, bambino siriano di etnia curda, annegato mentre cercava di raggiungere l’Europa. Il ragazzo in maglietta verde che suonava il pianoforte tra le rovine di Yarmouk, laddove sorge un enorme campo profughi palestinese, ventimila persone ammassate ed affamate che vivono (si fa per dire) nel continuo terrore delle bombe. Il giovane pianista si chiama Aeham Ahmad. Lui è poi riuscito ad attraversare il mare. Oggi vive in Germania e ha raccontato in un libro la sua storia (“Il pianista di Yarmouk”, edito in Italia da La nave di Teseo). Una vicenda da cui traspare l’angosciante domanda di ogni sopravvissuto (perché io sì e tutti gli altri no?); pagine in cui, al di là della vicenda personale, si rappresenta un dramma collettivo che quasi ogni sera entra e subito esce dalle nostre case, tanto quanto dura un servizio di telegiornale.

Il pianista di Yarmouk caricava il suo strumento su un carretto e andava a suonare nelle strade, in mezzo alle macerie, per contrapporre all’abbrutimento la commozione della musica; per restituire, dopo lo sconquasso, la dolcezza dei suoni; per ridare al silenzio della distruzione il canto della speranza, agli uccellini spauriti il ritrovato diapason d’un cinguettio. Un toccante atto di fede nell’uomo e nell’arte.

«Ci incamminammo. Il piano lo spingevamo io e Marwan. Cavolo se era pesante. Di solito su quelle strade scassate lo spostavamo in sei o sette. Mi sentii ancora più abbandonato. Niraz ci girava intorno e fotografava, Marwan sbuffava.
“Se gentilmente potessi darci una mano” disse a un certo punto.
“Hai voglia a fotografare!” Ma Niraz non ci pensa nemmeno.
La casa di Niraz era alla periferia di Yarmouk. Da lì al fronte erano pochi minuti. Imboccammo Palestine Street, un tempo piena di negozi, ora completamente deserta. A un certo punto Niraz si fermò e gonfiando il petto disse: “Qui. Giriamo qui”.
Lì la distruzione era particolarmente evidente. Carcasse di cemento s’innalzavano verso il cielo a mo’ di enormi monumenti sepolcrali, l’interno delle case rovesciato verso l’esterno. Ovunque, dentro e fuori, antri pieni di tubi, cavi e persiane. Tra i detriti sparpagliati per strada crescevano erbacce.
Presi posto al piano e riflettei su che cosa cantare. Negli ultimi mesi avevo scritto decine di canzoni, musica che mi era sgorgata da dentro. Mi tornò in mente una poesia che un uomo mi aveva dato qualche giorno prima.
L’uomo si chiamava Ziad al-Kharraf e un tempo era stato il venditore di miele del nostro quartiere. Un uomo benestante, istruito. Io non lo conoscevo bene, ma possedeva un titolo di dottore, il miele lo vendeva per passione. Faceva escursioni in montagna, dagli apicoltori o in paesi lontani, per esempio nello Yemen, solo per provare varietà particolari. Prima della guerra, ovvio.
Di recente era venuto da me e mi aveva dato un foglietto. Aveva un aspetto terribile. Impotente, disorientato; le palpebre semichiuse, gli occhi stanchi e vuoti. E io, idiota, avevo letto e fatto il saputello dicendo: “È scritto benissimo, ma dubito che si possa cantare. Forse posso recitarlo come poesia, con l’accompagnamento del pianoforte… cantare non credo”. Faceva così:
Ho dimenticato il mio nome,
le lettere e il senso,
ho dimenticato le parole
da cui solevo formare canzoni.

Ho dimenticato la mia voce
e la mia immagine,
il mio posto.
Ho dimenticato le fatiche del cammino,
verso il cielo, verso l’uomo,
verso la gloria di un tempo.
Palestinesi,
palestinesi.

E qui il tempo è fermo
davanti a una pagnotta di pane,
davanti a uno scatolone di aiuti umanitari.
Oh Palestina,
mia gloria.
Palestina
mia madre.

“Ti prego, Aeham, provaci” aveva insistito Ziad con un filo di voce. “È per mia moglie.” E mi aveva raccontato la storia: la moglie, in stato interessante avanzato, aveva ricevuto un permesso per andare a partorire a Damasco. Arrivata al checkpoint, i soldati non l’avevano lasciata passare. Il nome sul documento era sbagliato. Tutti gli altri dati erano corretti, ma due lettere nel nome erano state invertite. I soldati non avevano voluto sentire ragioni.
La donna aveva aspettato per ore e ore che qualcuno correggesse il lasciapassare. In piedi, seduta, camminando. A un certo punto era crollata. In avanti, sulla pancia. Era morta durante il tragitto per l’ospedale. Il bambino era sopravvissuto. Nessuno, però, sapeva se sarebbe stato in salute.
Ziad l’aveva amata più di ogni altra cosa. Non era stato un matrimonio combinato, l’aveva sposata per amore. Sua moglie era stata anche la sua migliore amica. Avevano già tre figlie, quello era il primo maschio.
Davanti a questi occhi infinitamente stanchi io alla fine avevo balbettato: “Mi spiace, per favore dimentica quello che ho detto. Va bene, metterò queste parole in musica, farò una canzone per tua moglie.” La stessa sera mi ero seduto al pianoforte e avevo pensato a una melodia.
Mentre Niraz ancora montava i suoi strumenti, all’improvviso arrivò una signora con un vassoio. Il fatto che qualcuno spuntasse in quel posto sconsolato con un pianoforte, ci spiegò, l’aveva esaltata, al punto da tirare fuori i suoi ultimi chicchi di caffè. Li aveva tenuti da parte per un’occasione speciale. E l’occasione speciale era arrivata: il suo ultimo caffè voleva berlo mentre mi ascoltava suonare. “Quello che fate è importantissimo” disse versandomene una tazza. Sorrisi riconoscente e mi godetti il gusto amaro.
Proprio in quel momento sentii un cinguettio: tre uccellini appollaiati sulla ringhiera di un balcone, al primo piano, dritto davanti a me. Un piccolo miracolo. Ogni granata, infatti, ogni sparo, per prima cosa fa sparire gli uccelli. E i pochi che perdendosi tornavano a Yarmouk venivano subito abbattuti, a causa degli stomaci vuoti. Appena iniziai a suonare gli uccellini ricominciarono a cantare.
Il cinguettio che non ascoltavo da tanto tempo, il profumo di caffè di cui sentivo la mancanza da mesi, la rabbia per gli stomaci vuoti, il mio occhio che ancora lacrimava per la ditata di mio figlio: tutto questo si mischiò con il sapore di cannella che avevo nella pancia, la stanchezza per le sfacchinate per l’acqua e lo sguardo vuoto di Ziad al-Kharraf. Chiusi gli occhi e attaccai:

Ho dimenticato il mio nome
le lettere e il senso,
ho dimenticato le parole
da cui solevo formare canzoni.

Appoggiai la schiena alla sedia e cantai. Non ne potevo più, mi faceva schifo tutto, ero pieno di ansie e preoccupazioni. La storia di Ziad, i bambini denutriti, la scomparsa di mio fratello. Il pianoforte scordato, le mie mani rovinate. Cosa ci facevo lì da solo in mezzo alle rovine? Dov’erano finiti gli altri, perché mi avevano piantato?
La signora scoppiò a piangere. Le parole di Ziad fecero ripiombare lo smarrimento di tutti: la signora, i tre uccellini, Niraz, Marwan, io. Il mio canto fu il grido di una persona che sta precipitando in un baratro, la melodia del suo viaggio verso l’inferno.
Niraz deve aver scattato la foto in questo momento. >>

[da Il pianista di Yarmouk di Aeham Ahmad, La nave di Teseo, 2018]
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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