Il peso. Quando i vuoti dell’anima fanno ingrassare

Luigi Oliveto

01/09/2022

Può accadere che i vuoti dell’anima (vuoti d’amore, relazioni umane, interessi) ci ingrassino smodatamente il corpo. Questo racconta Liz Moore nel romanzo “Il peso” (traduzione di Ada Arduini, NN Editore) dove il protagonista Arthur Opp, ex professore di Letteratura, vive recluso nella bella casa di Brooklyn rimpinzandosi di cibo fino ad avere raggiunto un peso spropositato che lui, senza verifiche di bilancia, presume essere tra i duecentoventi e i duecentosettanta chili. Tanto che “quando faccio più di sei o sette gradini mi manca il fiato e in effetti mi sento molto timido e come imprigionato dentro una custodia, come un violoncello o un fucile costoso”. Arthur si è così autoescluso dalla società, il suo corpo esagerato non vi trova posto. Sotto la spessa coltre d’adipe l’unico sentimento che ha resistito è quello per Charlene, ex allieva con la quale aveva avuto una relazione e, nel corso del tempo, intrattenuto una affettuosa corrispondenza (il romanzo si apre proprio con una lettera indirizzata a lei). È da un po’ che non si sentono, finché un giorno Charlene lo chiama. Suo figlio Kel, un ragazzo in crisi, avrebbe bisogno di essere aiutato negli studi. Kel gioca bene a baseball, ha dei sogni, magari troppo grandi rispetto alle possibilità. È arrabbiato e soffre a vedere sua madre logorarsi nell’alcol e nella depressione. Arthur – primo atto di uscita dal mondo in cui si è rinchiuso – prova a contattare Kel. Gli iniziali tentativi vanno falliti. Ma nelle pieghe dell’esistenza, a soccorrerci intervengono talvolta piccole casualità o forse le riserve dei riposti sentimenti. Per Kel e Arthur sarà l’amore di Charlene a indurre il loro avvicinamento sollevandoli a poco a poco da ciò che tanto pesa in corpo e anima. Liberati da angosce, disagi, avversioni ristabiliscono un’apertura agli altri. Caratterizzato da una scrittura molto diretta e spoglia, il romanzo ha in filigrana un diffuso senso di tenerezza. Quale è il sentimento che suscita ogni richiesta di attenzione e di amore.

***

Quando ho finito di scrivere ho tenuto la lettera davanti agli occhi e ho immaginato di spedirla. Ho immaginato molto chiaramente di ripiegarla con cura in tre parti e di prendere la busta con la mano destra e di inserire la lettera con la sinistra. E poi di sigillarla. E poi di scriverci l’indirizzo di Charlene, che conosco bene quanto il mio. Vigliacco, vigliacco, ho pensato, se valessi qualcosa lo faresti. Mentre scrivevo avevo provato un grandissimo sollievo ad alleggerirmi la coscienza dopo così tanto tempo con qualcuno a cui tenevo in questo modo. Era la lettera che avevo sempre sognato di scriverle. Ma ovviamente avevo troppa paura di spedirla e così mi sono convinto che si trattava di una sincerità del tutto egoista, e che non avevo il diritto di scaricarla sulle spalle di Charlene.
I fatti che mi hanno spinto a scriverla sono i seguenti.
Prima di tutto, tre giorni fa è squillato il telefono. Non stavo facendo assolutamente nulla e mi ha spaventato moltissimo.
Sono trasalito violentemente. Prima di rispondere ho aspettato per qualche squillo che il respiro mi tornasse regolare.
Dal ricevitore è uscita una voce. «Arthur?» ha detto qualcuno. «Arthur Opp?».
Non ricevo molte telefonate personali e mi è balzato il cuore in gola al pensiero di chi poteva essere.
«Sì» ho risposto, in un sussurro.
Era Charlene Turner. Non credevo che avrei mai più sentito la sua voce in vita mia, ma cavolo come ne sono stato felice. Ero lì lì per lanciare un grido ma mi sono costretto a tacere. Mi sono messo una mano sulla bocca e mi sono morso il palmo.
Erano passati quasi vent’anni dall’ultima volta che l’avevo vista. La relazione che avevamo avuto molti anni prima si era naturalmente evoluta in una specie di corrispondenza continua e costante. Ma in tutti questi anni, le sue lettere erano diventate per me indicibilmente importanti. Un estraneo avrebbe potuto definirci semplici amici di penna ma io sentivo che con il tempo ero arrivato a conoscere Charlene come non mi era mai capitato con nessuno e avevo provato anche a immaginare che un giorno ci saremmo rivisti, che avremmo ripreso il nostro rapporto e tutto sarebbe diventato molto facile e naturale.
Però la sua telefonata mi ha innervosito.
Abbiamo parlato per un po’ e io ho cercato di sembrare calmo e rilassato ma mi è venuto da raccontarle una quantità straordinaria di bugie.
Avrei voluto chiederle: Hai ricevuto le mie lettere? (era passato quasi un anno dall’ultima volta che avevo avuto sue notizie e in genere scriveva più spesso) invece le ho chiesto: «Come stai?».
Lei ha risposto: «Bene» con il tono di chi vuole darti a intendere esattamente il contrario.
Abbiamo parlato per un po’ di niente. Le ho dato notizie di William, il fratello il cui affetto avevo per capriccio alquanto esagerato in una delle mie lettere. Le ho detto che stava benissimo e che l’anno successivo sarebbe andato in pensione dopo una fortunatissima carriera di architetto. Le ho detto che il mese prima ero andato a trovare alcuni parenti in Inghilterra e che il giorno prima ero stato a Manhattan a far visita a un vecchio amico. Poi le ho detto che avevo iniziato a occuparmi di fotografia.
«Fantastico» ha detto Charlene e anch’io ho ripetuto: «Fantastico».
«Insegni ancora?» mi ha chiesto.
«No, ho smesso» ho risposto, senza pensarci.
Lei ha esclamato: «Oh no» con un tono molto rammaricato e deluso.
Così ho aggiunto: «Ma ora insegno privatamente» per darle l’impressione che in tutti quegli anni qualcosa avevo fatto.
A quella notizia lei si è rallegrata e mi ha detto che era proprio il motivo per cui mi aveva chiamato.
«Ti manderò una lettera, Arthur» mi ha detto. Quando ho fatto caso alla sua voce mi sono reso conto che era molto strana, lontana e piena di rimorso, e più lenta di quando la frequentavo, come se la lingua fosse impastata. Poteva anche essere ubriaca. Erano le due del pomeriggio.
«Va bene» ho detto.
«Leggila» ha detto lei. «Stai ancora allo stesso indirizzo?».
«Sì» ho risposto.
«Leggila».
«Va bene».
«Cosa mi hai scritto?» ho domandato, ma lei aveva già riattaccato.
Sono rimasto per un po’ sul divano. Poi sono andato in camera e mi sono seduto sul letto. Poi ho aperto il cassetto del comodino e ho tirato fuori il fascio di lettere che Charlene mi aveva inviato. Non sono molte, forse quaranta in tutto. La sua scrittura è tesa come una corda di violino, minuta e con le lettere che si sovrappongono. Quella sera le ho lette tutte di fila, un piacere che raramente mi sono regalato nei nostri vent’anni di corrispondenza, e mi sono anche concesso, solo per un momento, di sognare Charlene, di ricordare la nostra breve relazione con lo stesso affetto e la stessa passione che, per molti anni, mi hanno tenuto in vita.
E poi questa mattina, visto che non avevo nient’altro da fare, mi sono seduto a scriverle la lettera che ho continuato a ripetermi nella testa, la lettera che dice la verità, l’ammissione taumaturgica dei miei segreti più oscuri, la lettera che sapevo avrei dovuto spedirle se ci fossimo incontrati di nuovo. La lettera che le avrei inviato in quel momento se non mi fossi comportato come un gran vigliacco. Il vigliacco che in realtà sono.
 
[da Il peso di Liz Moore, trad. Ada Arduini, NN Editore, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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