Il pensiero della Morte. Consapevolezza che si forma vivendo

Francesco Ricci

10/04/2018

“Voglio dire, quando stavamo sempre insieme e giocavamo e cacciavamo, e la giornata era breve ma gli anni non passavano mai, tu sapevi cos’era la morte, la tua morte? Perché da ragazzi si uccide, ma non si sa cos’è la morte. Poi viene il giorno che d’un tratto si capisce, si è dentro la morte, e da allora si è uomini fatti”. Le parole che Achille rivolge a Patroclo appartengono a uno dei Dialoghi con Leucò (1947), il libro che Cesare Pavese ebbe più caro, a tal punto caro da affidare ad esso (una nota a penna sul frontespizio), il 27 agosto 1950, il suo ultimo messaggio: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.

Alla sensibilità dell’eroe greco, dunque, la morte appariva sì una presenza che accompagnava l’uomo sin dalla nascita, ma la consapevolezza di dover morire si veniva a collocare successivamente nel tempo, per la precisione sul crinale che separa l’adolescenza (“da ragazzi”) dalla piena giovinezza (“si è uomini fatti”): a partire da allora, risultava chiaro che l’immortalità rimaneva una prerogativa degli dei.

L’accresciuta aspettativa di vita, almeno nei paesi industrializzati, nulla ha tolto, nulla ha aggiunto alle parole di Achille, se è vero che gli studenti continuano ad affermare di riconoscersi in esse. Certo, la convivenza quotidiana con la malattia di un familiare, la scomparsa improvvisa di un compagno di scuola, il decesso di un personaggio pubblico amato e considerato un modello di condotta, fanno sì che a risaltare non sia unicamente l’irreversibilità del divenire – indietro non si può tornare –  ma anche la fragilità della parete che separa l’essere dal non-essere, il pieno dal vuoto, quasi che lungo il cammino dell’esistenza si aprissero inaspettate delle porte affacciate sul nulla, e questo a quindici, a trenta, a cinquanta, a settant’anni. Tuttavia, la morte, agli occhi di un adolescente, non è avvertita accompagnarci “dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo” – sempre Pavese –, piuttosto essa è giudicata alla stregua di un inciampo, di un episodio, di un imprevisto. La verità, per un giovane, riposa tutta nella vita che si sta aprendo davanti a lui, nei pomeriggi di sole che lo conducono al mare con gli amici, nelle partite di pallone sul campino polveroso di periferia, nelle mani che cercano con avidità la pelle della propria ragazza. Col morire, in sostanza, può capitare di fare i conti anche precocemente, ma ciò non significa certo che un sedicenne sia dominato da un tale pensiero, meno che mai che percepisca di essere “dentro la morte”. Al contrario, se c’è una sensazione che rende splendidamente inimitabile l’adolescenza, è il sentire di essere “dentro la vita”, pur essendo consapevoli, come dice Achille a Patroclo nel proseguo del dialogo, che “verrà il giorno che saremo cadaveri”. Sotto questo aspetto, nessun dipinto riesce a comunicare meglio il significato autentico della giovinezza – i suoi umori, i suoi colori, le sue atmosfere –  delle angurie rosse di Frida Kahlo, che recano incise nella polpa (nel frutto tagliato a fette in primo piano) la scritta Viva la vida.

Eppure, sono persuaso che qualcosa sia cambiato nel rapporto tra gli adolescenti e la morte, un qualcosa che ha il sapore del compimento. Si è concluso, infatti, il processo, iniziato grosso modo con l’Illuminismo, il quale ha visto la progressiva cancellazione, nell’immaginario collettivo, dell’idea di aldilà. Certo, la filosofia, la letteratura, l’arte, hanno continuato a fare i conti col dopomorte, forse come mai era loro accaduto in precedenza. Ma le persone hanno per lo più cessato di pensarci, perfino la Chiesa ha smarrito la precisione – la sicurezza – nel disegnare una credibile topografia dell’oltrevita, che ha finito perciò con l’assomigliare a un immenso vuoto.  La conseguenza è che oggigiorno i giovani la morte continuano a incontrarla, nello spazio vicino (il proprio ambiente di vita) e nello spazio lontano (grazie alla televisione e alla Rete), e, proprio perché la incontrano, ad essa rivolgono necessariamente la loro attenzione. Ma è un pensiero che si arresta sulla soglia, che non si spinge quasi mai al di là di essa (non fosse altro che per interrogare la morte), dove una tradizione millenaria ha immaginato che si aggirassero i defunti, che Dio comminasse pene e premiasse i puri di cuore, che coloro che si sono amati potessero incontrarsi di nuovo, che l’inconcepibile si rivelasse giusto e fornito di senso.

Scaduta da accesso (a una nuova fase dell’esistenza) a semplice uscita (da questa esistenza, che resta la sola esperibile), la morte è divenuta così un angosciante buco nel pensiero, per difendersi dal quale la sola cosa da fare è il ritrarsi, il rimuovere, il fare finta di niente: non già guardare dentro l’abisso, bensì al di fuori di esso.
Ho sempre dubitato dell’utilità di prepararsi a morire e, ancora di più, della possibilità di imparare a farlo, poiché, come ha scritto Vladimir Jankélévitch, “non c’è niente da imparare (…) è qualcosa che nella vita si fa una sola volta – e questa prima volta per definizione è anche l’ultima”. Ho anche sempre amato gli adolescenti che vivono la loro età con la stessa leggerezza con la quale Esterina, l’indimenticabile fanciulla montaliana di “Falsetto”, si tuffa in mare dal “tremulo asse”.

Ma resto fermo nella mia convinzione che già a quattordici, come a sedici, come a vent’anni, quando la personalità è ancora in corso di formazione, sia importante il pensiero della morte per non sprecare tempo ed energie dietro a persone e attività che non potranno giovare né alla nostra felicità né alla comprensione di quale sia la nostra vocazione più intima e più vera.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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