Torna il Giorno della Memoria a farci riflettere su uno dei momenti più cupi, tragici e paradossali della nostra storia. Torna per ricordare in quali abissi possa sprofondare la natura umana (e mai questo aggettivo risultò così tanto incongruo). Molti i libri che hanno raccontano la Shoah, quasi sempre scritti da chi quella atroce esperienza visse sulla propria carne e anima. Pagine frutto di una doppia angoscia: per ciò che hanno dovuto ricordare; per la mortificante fatica di narrare l’inenarrabile. Un titolo recente è “Il pane perduto” di Edith Bruck (La nave di Teseo, 2021). L’autrice – oggi novantenne – è sopravvissuta, ragazzina, ai campi di sterminio di Auschwitz e Dachau. Come tutti coloro che poterono dirsi ‘i salvati’, fu segnata per sempre da un senso di colpa verso chi, invece, era restato tra ‘i sommersi’. Tremendo dover trovare una ragione di vita dopo che la vita era stata in quel modo annientata, vilipesa. Nel romanzo, Edith Bruck racconta la sua infanzia trascorsa in Ungheria, in una famiglia ebrea di poverissime condizioni, quindi l’arresto, la deportazione in campo di concentramento (i genitori vi moriranno) e poi il non-senso del ritrovarsi ancora al mondo. Nello stesso mondo che ha consentito che certe cose accadessero e ora vorrebbe tacerle, dimenticarle. Perfino i familiari che non hanno conosciuto il lager risultano estranei, rifuggono qualsiasi allusione all’inferno nazista. Con mente e cuore devastati, la Bruck cerca allora un altrove (geografico e psicologico) dove poter legittimare la propria salvezza. Prova a crearsi una nuova vita in Israele, gira per l’Europa con una compagnia di ballo formata da esuli, finché – siamo negli anni Cinquanta – giunge a Roma e vi si stabilisce assumendo la direzione di un elegante centro estetico. Conosce il poeta e regista Nelo Risi, e con lui, per sessant’anni, condividerà una vita di affetto ed esperienze artistiche.
Lungo il filo dell’autobiografia, il libro arriva al tempo attuale e al turbamento che suscita constatare come nel nostro Paese e in Europa spiri “un vento inquinato da nuovi fascismi, razzismi, nazionalismi, antisemitismi […]; piante velenose che non sono mai state sradicate e buttano nuovi rami, foglie che il popolo imboccato mangia…”. Nell’ultimo capitolo l’autrice scrive una toccante lettera a Dio. Gli chiede di concederle un altro po’ di tempo per raccontare alle nuove generazioni tutto la sofferenza che lei ha dovuto attraversare. Vivere quanto basta per consegnare alle giovani coscienze una memoria, un monito che li salvi dal ripetersi di analoghe tragiche vicende. Dice anche che negli incontri con i giovani viene sempre interpellata su tre inevitabili questioni: se crede in Dio, se perdona il Male, se odia i suoi aguzzini. Domande complicate cui bisogna essere stati capaci di dare prima una risposta a sé stessi. Confida Edith Bruck: “Alla prima domanda arrossisco come se mi chiedessero di denudarmi, alla seconda spiego che un ebreo può perdonare solo per se stesso, ma non ne sono capace perché penso agli altri annientati che non perdonerebbero me. Solo alla terza ho una risposta certa: pietà sì, verso chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo Ti ringrazio […]”.
***
Tanto tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no. A volte si fermava e si introduceva di soppiatto nella cantina dove era spesso confinata e legata Juja; dicevano che era pazza ma a lei sembrava appena diversa dalle altre donne giovani e, con il suo cuoricino colmo di pietà, ascoltava i suoi lamenti contro la famiglia cattiva che non le aveva fatto sposare il suo ragazzo di nome Elek.
Lei avrebbe voluto farle una carezza anche se era sporca, ma quando si avvicinò, non priva di paura, Juja le strappò il nastro rosso da una delle trecce, e prima che le strappasse anche l’altro fuggì, preoccupata all’idea di essere sgridata dalla madre o dalla sorella maggiore Judit, che si atteggiava a vicemadre.
Le sorelle grandi grandi erano nella capitale a fare le apprendiste sarte, anche un fratello era in una città meno importante. A casa restavano un fratello pallidino più grande e lei, la più piccola, spesso chiamata Grattina, essendo l’ultima di sei figli vivi; le avevano dato quel nome della pasta che la madre grattava dal fondo della madia.
“Grattina, stai zitta” le dicevano se capiva troppo, invece di Ditke che era il suo vezzeggiativo.
Nelle sue corse qualche contadino baffuto le aizzava contro il cane e quando assillava la madre con i suoi troppi “perché?” lei non aveva tempo di risponderle, al più alzava lo sguardo viola-azzurro al cielo dicendole: “Chiedi a Lui e ringrazialo che è passato un altro inverno e la legna umida non piange più nella stufa.”
“E il nastro, il nastro?!” le aveva urlato appena era rientrata a casa come fosse senza una gamba.
“L’ho perso, l’ho perso” mentiva non potendo dire la verità, perché la madre, quando aveva scoperto che andava a trovare Juja la pazza, non aveva troppo esitato ad allungare la mano o a mandarla a letto senza cena, ben sapendo che quell’ultima mocciosa di figlia che aveva cacato al mondo (così diceva, se era esasperata) era attratta dai matti, dai vecchi seduti muti in strada al primo sole e dai bavosi balbuzienti che voleva capire. Aveva una curiosità poco sana, ma la madre riconosceva che era la prima della classe a scuola, nonostante le leggi razziali, che il villaggio non applicava pienamente. E le tre ragazze ebree, pur confinate all’ultimo banco, non subivano le leggi con la stessa severità delle città. La piccola Ditke era seduta accanto alle due correligionarie: Piri, figlia della merciaia Roth, Eva, figlia del bottegaio delle spezie Reisman e lei, figlia di Stein Schreiber, di un padre che in mancanza d’altro portava le bestie altrui per venderle al mercato della città più vicina per un misero guadagno.
Piri la guardava di traverso, perché era troppo povera per il padre, che al contrario del suo, con la barba e i riccioli, aveva l’aspetto di un goi e frequentava poco la piccola sinagoga. Eva, la dodicesima figlia di un padre ortodosso, era un’amica. Ma quando per un tema sulla primavera Ditke risultò l’unica premiata della classe e quasi scoppiò della felicità, tutte la invidiarono. Quel giorno non camminava ma volava a casa sbandierando il premio che consisteva in una cartolina con una rondine a colori e una scritta sul retro: “Alla mia alunna più brava, più meritevole” firmato Tarpai Klara, l’insegnante. Per strada gridava di gioia: “Mamma!” La gente, i vicini si affacciavano, solo i suoi sembravano spariti, e giunta all’ingresso vide la madre e la sorella al sole nel cortile che estraevano le piume dei cuscini.
“Psss, che sventoli, che sventoli? Non vedi, giù le mani, non fiatare! Raccogli subito una a una le piume che hai fatto svolazzare!”
“Guardate, guardate!” agitava ancora la cartolina, mostrando la scritta sul retro e creando una nuova nuvola.
“Ci mancava solo che non ti premiassero! Non fai che recitare poesie al posto delle preghiere” borbottava la madre, ma con uno sguardo benevolo e un sorriso appena accennato capace di tramutare la sua espressione severa in una dolcezza magica che le restituiva bellezza e giovinezza.
“Mi dai un premio anche tu, mamma? Un bacio.” Le chiese quel dono, raro, se non nei momenti di lutto, di partenze e arrivi. Quando la madre era andata al matrimonio della seconda figlia Mirjam, sposata con un giovane polacco fuggito dal suo paese. E quando il padre decorato in guerra era tornato a casa, escluso dall’esercito nel 1942. E quando era morta la nonna materna che era vecchia vecchia agli occhi della dodicenne Ditke, che fissava quel corpo immobile per terra avvolto in un lenzuolo bianco finché, su due assi, non era stata portata via, nel piccolo cimitero vicino a casa di Eva, ma né suo padre, né quello di Piri erano presenti perché si diceva che erano kohen. La piccola Ditke tristemente elencava dentro di sé i nomi delle famiglie ebraiche del villaggio: Szàmeth, i due Grosz, Kràmer, Klein, Printz, Weisz, due Reisman, Ròth e Bieber, fratello di sua madre. Solo i tre membri della comunità senza barba e riccioli erano venuti.
“Loro sono nobili, papà?” chiese al padre.
“Come sacerdoti. Meditano, studiano, sono kohanim e fanno dozzine di figli” mormorava.
“E non ricordano neanche i loro nomi” commentava la madre.
“Non discutete adesso qui” si intromise Ditke stringendo la mano materna calda, morbida mentre cercava di decifrare la preghiera rituale che iniziava.
“Sia il Suo grande nome benedetto per tutta l’eternità. Venga il suo regno durante la vostra vita e durante l’esistenza di tutto il popolo d’Israele...”
Al nome di Israele, sua madre, fino ad allora senza una lacrima, era scoppiata in un pianto che non poteva non arrivare al cielo. E il padre la stringeva a sé come non l’aveva mai stretta, ripetendo il suo nome, Frida, Friduska (in ebraico Deborah). E in una strana, insolita, unita felicità i tre figli si aggrappavano ai genitori: Judit, la più religiosa, Jonas, il più pallido, e la piccola Ditke. Sara, Mirjam e David raramente tornavano a casa.
[da Il pane perduto di Edith Bruck, La nave di Teseo, 2021]
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