26/08/2015
Si è soliti dire che il Palio di Siena, in forza della sua anima, sia fuori dal tempo. Ma, ovviamente, non è mai stato immune dai tempi, dai frangenti storici che di volta in volta ha attraversato. Basti leggere documenti e cronache d’epoca. Nelle scorse settimane, proprio su queste pagine, ricomponendo una sbrigativa antologia di scritti d’autore dedicati al Palio, ricordavo il racconto che Mario Pratesi ebbe a fare sulla presenza di Massimo D’Azeglio alla carriera del luglio 1858. E come il clima politico di allora avesse condizionato passioni e esiti della corsa. L’arrivo del D’Azeglio fu inteso come un anticipo di notizia: che per la dinastia lorenese e per il tedesco era suonata l’ultima ora. Dunque, grandi entusiasmi per il tricolore liberale dell’Oca (che vinse quel palio), fischi per la Tartuca i cui colori richiamavano l’impero, tiepida considerazione al rosso repubblicano della Torre.
Anche i problemi di disciplina e regolamentazioni non sono certo questione nuova nella storia del Palio. Ne fa testo la durissima lettera, datata 3 luglio 1870, che il sindaco Luciano Banchi (un erudito, un liberale progressista, un intellettuale prestato alla politica) indirizzò ai 17 priori dopo i “deplorevoli incidenti” avvenuti nella corsa del giorno prima. Perché – scrisse il sindaco – non era più tollerabile “che uno spettacolo dato a sollazzo dei cittadini e costoso a questa amministrazione possa convertirsi in scene vergognose e indecenti”. La rampogna del cavalier Banchi terminava con un fermo invito: “Le Contrade si adoperino a persuadere i tutti che il tempo di un fanatismo cieco, che talora diventa colpevole, deve intendersi passato oramai; che uno spettacolo pubblico a cui accorrono in gran numero cittadini e forestieri deve cessare di essere uno spettacolo di scandalo e di vergogna, che il rinnovarsi dei disordini dell’ultima corsa equivarrebbe a costringere ad ogni costo l’autorità a ricorrere a provvedimenti radicali”.
Giusto due lacerti ottocenteschi per dire che niente di nuovo accade sotto il sole di piazza del Campo. E che – fatte le dovute distinzioni di circostanze, epoche, quadri sociali – non sorprende affatto come il Palio debba continuamente ‘aggiornarsi’ alle trasformazioni (sociali, culturali, di costume) che nel corso degli anni investono singoli e comunità. L’elemento di novità rispetto al passato è magari costituito dal fatto che ora le trasformazioni sono più celeri e i processi di globalizzazione davvero spiazzanti per tutto ciò che, invece, rappresenta ‘il particolare’, rivendica valenze identitarie che giustappunto nella particolarità vivono (talvolta si arroccano). La stessa parola ‘identità’ è diventata ambigua. Ovvero, ha un senso laddove indichi con quale peculiarità ciascuno di noi chieda l’iscrizione all’anagrafe del mondo; ma diviene manifesta ottusità qualora la si proclami come elemento di separatezza o esclusione verso l’estraneità (ammesso che il termine sia ancora utilizzabile).
Ebbene, non credo sfugga a questa considerazione nemmeno quella piccola cosa che è il gioco del Palio, il quale, con il tempo, è divenuto forte elemento identitario di una città. Pure in tal caso si tratterà di riuscire a condividere un proprio patrimonio (umano, civile, culturale) con la ‘contemporaneità’ e con le sue espressioni di progresso, contraddizioni, incertezze, mode, linguaggi, sensibilità. Per fare questo dovrebbe risultare chiaro che il Palio può continuare ad avere una sua ragione non in sé e per sé (questo sì lo declasserebbe a mera rievocazione) ma come giocosa (e perché no?, solenne) metafora, esplicitazione, racconto di valori condivisi e per niente anacronistici. Uno su tutti: quell’essere diversi, divisi, finanche avversari, per ritrovarsi poi comunità.
In tale ottica, però, la cosiddetta cultura paliesca non basta. Va letta, interpretata e tramandata all’interno di una cultura tout-court dove la memoria del passato aiuti ad arricchire l’oggi e a progettare il futuro di una città non certo fuori dal mondo. Una iniziativa che coglie molto bene questa esigenza è, ad esempio, la recente celebrazione dell’antico capodanno senese promossa dal Magistrato delle Contrade. Un intelligente pretesto che attinge alla storia trascorsa per farsi occasione di riflessione (di sintesi) sul presente. Insomma, più la città sarà ‘attuale’, aperta alle sfide odierne, laboratorio di contenuti, e meglio riuscirà a tutelare le proprie tradizioni. Per ‘difendere’ il Palio (sembra essere questo il problema del momento) è necessario, innanzitutto, contestualizzarlo in un respiro culturale inedito che veda impegnata l’intera città. E cultura non significa astrazione, ma fare cose con mentalità aperte e (in)formate al nuovo.
Diversamente c’è il rischio che Siena (e il suo Palio) venga ridotta al macchiettistico o (dai più benevoli) al pittoresco, al vintage. Si sarà notato, in proposito, come gli inviati al Palio delle diverse testate giornalistiche, privilegino l’articolo ad effetto, cronache tanto spigliate quanto sciatte. Difficile leggere reportage che restituiscano il senso profondo della Festa. Colpa della stampa o della città che non sa più trasmettere il proprio spirito, non sa più raccontarsi? Nella retorica del Palio (ed uso questa espressione in accezione positiva, per come la retorica abbia alimentato, nei secoli, suggestioni e narrazioni della Festa senese) si afferma, a buon diritto, come esso sia espressione di una sorta di religione civica. Verissimo. Si sappia, però, che le religioni (qualunque esse siano) non hanno senso in sé e per sé, pena il rischio di generare bigotti o, peggio ancora, fondamentalisti. Hanno una loro ragione d’essere per quanto sanno indicare il “qualcos’altro”. Allora – al netto della forzatura retorica – questo deve essere il Palio: rito, allegoria, condivisione di sentimenti che rinviano a più importanti modalità di essere Civitas, già ben oltre le mura di un sogno gotico.
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Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...
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