Il Palio della Madonna di Provenzano. Una storia di fede, prostitute e soldati

Luigi Oliveto

02/07/2015

Nelle giornate estive, quando il bianco della Collegiata fa solenne la luce e ciò che essa perlustra fin dentro i dettagli, piazza Provenzano sembra allagarsi di una solitudine metafisica. Solo i giorni del Palio la ricondurranno ad una misura concreta, popolandola di colori, di sudaticcia umanità. E di scalmanata devozione, perché la chiesa di Provenzano, intitolata alla Visitazione della Vergine, costituisce, insieme al Duomo, l’altro polo del culto mariano, notoriamente radicato in Siena per atavica eredità, tanto da avere appellato la città come “Civitas Virginis”. Da qui anche la ragione dei due palii dedicati alla Madonna: quella Assunta, invocata negli slanci gotici della Cattedrale; quella, in sembianze di fragile terracotta, pregata nella Collegiata di Provenzano.

La storia della Collegiata di Provenzano è l’ennesima testimonianza di come nella Siena dei decisi contrasti (del resto bianco e nero è l’emblema) anche la virtù trovasse sempre un suo pari contrario. Raccontiamola dunque così. Verso la fine del Cinquecento, dai numerosi conventi presenti in città giungevano i virginali canti delle “Salve regina”, ma non di meno era udibile e ugualmente struggente il controcanto delle prostitute il cui anagrafe vantava, all’epoca, numeri davvero importanti.

Giustappunto il quartiere di Provenzano (dal nome di Provenzano Salvani, che qui aveva avuto la sua prestigiosa dimora) poteva offrire un’ampia scelta di postriboli e qualificate professioniste. Tra le più note c’era, ad esempio, Viola, che meritò persino l’intitolazione di una strada tutt’ora esistente con questo nome. Il vicolo della Viola fa parte di un intrico di stradine dai nomi inequivocabili: via delle Vergini, via del Giglio, un tempo esisteva anche via del Buco (successivamente diventata via Baroncelli). Toponomastica, insomma, dettata dal sarcasmo della gente e che andava a contrassegnare la mappa di un quartiere assai industrioso, almeno per ciò che attenesse il prodotto che si ricava da quella ben diffusa materia prima. I già floridi commerci raggiunsero cifre da miracolo economico verso la metà del Cinquecento, all’epoca della dominazione spagnola, grazie ai soldati di don Diego Hurtado di Mendoza, accasermati nel convento di San Francesco, che potevano facilmente raggiungere le vicinissime stradine delle señoritas, poiché, come si sa, il fucile – vero o metaforico che sia – è da sempre e comunque arma virile.

Nessuno, però, avrebbe mai immaginato che le lucine (rosse) di quelle catapecchie avessero potuto un giorno smorzarsi dietro lo scintillio di un imponente tempio, la Collegiata di Santa Maria di Provenzano.

Tra storia e leggenda questo accadde. Nei paraggi dell’area dove oggi sorge la Collegiata, sulla facciata di una di quelle case tanto malfamate era posta un’edicola raffigurante una piccola Pietà. Un soldato spagnolo in vena di bravate – fucile arma virile, ma sovente messa in mano agli scemi – vide bene di sparare un’archibugiata contro il tabernacolo. Il colpo frantumò buona parte del bassorilievo, ma l’arma implose in mano all’infame minchione che morì all’istante. Era il 2 luglio del 1594 e già un anno dopo fu iniziata la costruzione della chiesa, terminata nel 1604, che avrebbe conservato il busto della Vergine rimasto indenne dal sacrilegio e già prodigo di miracoli. A quel punto le meretrici, salvo qualcuna convertitasi ad altra vita, dovettero acquartierarsi altrove. Una vibrante sintesi delle vicende legate al ‘risanamento’ del rione la troviamo scritta in latino su un muro di via Provenzano Salvani. Nella lapide collocata lì nel 1723 dal cavaliere Alcibiade Lucarini Bellanti, rettore della chiesa di Provenzano, leggiamo: «Sosta un poco viandante, fintanto che qui non passi inosservata la immagine della Beata Vergine Maria. Tutta questa zona di Provenzano fu esposta alle meretrici, ma dopo che rifulse l’astro virginale si dissolse come nebbia quella peste, il lupanare da qui sparì e, giungendo da ogni parte la devozione senese, fu eretta la vicinissima chiesa dove la sacra immagine è venerata da una grandissima affluenza di popoli».

Il tempio divenne subito fulcro di devozione. Alla madonnina si chiedevano grazie prodigiosamente corrisposte. E fu culto non solo di popolo ma anche di nobili. Su tutti i governatori medicei, che l’edificazione della chiesa avevano finanziato in maniera sostanziosa. Caterina de’ Medici, governatrice di Siena dal 1627 al 1629, dispose, prima di morire, che il suo cuore venisse sepolto in Provenzano come pegno alla devozione che nutriva per quella Madonna. E pure le viscere del principe Mattias, deceduto l’11 ottobre 1667, trovarono inumazione nella Collegiata senese.

Sappiamo, poi, in che modo la venerazione per la Madonna di Provenzano abbia incrociato la storia del Palio. Erano i primi decenni del 1600. Per quanto divertenti potessero risultare le corse di cavalli lungo le strade cittadine, con le quali a mezz’agosto si concludevano i festeggiamenti per l’Assunta, esse mancavano, però, di quella spettacolarità che il conchiuso scenario di piazza del Campo avrebbe offerto. Perciò si cominciarono a organizzare anche palii “alla tonda”, percorrendo l’anello più esterno del Campo. Peraltro, sarà proprio a partire da quest’epoca che le Contrade acquisteranno in tali giostre un ruolo sempre più determinante.

Nel 1656 il palio “alla tonda” avrà così una sua codificazione e cadenza regolare, nonché una esplicita dedicazione alla Madonna: d’ora innanzi, ogni 2 luglio, verrà disputato un palio in onore della Madonna di Provenzano, nel giorno, cioè, in cui quella immagine aveva subìto l’oltraggio.

E’ dunque seguendo il solco di questa storia che, ancora oggi, a palio vinto, i senesi irrompono nella penombra barocca di Provenzano per cantare il loro “Maria mater gratiae”. Una preghiera antica, suggerita nei libri liturgici fin dal 1300 e che, scandita sui modi del canto gregoriano, a Siena è divenuta incredibilmente canto popolare. Non credo esistano al mondo circostanze simili in cui la lingua latina sia così tanto e chiassosamente storpiata. Ma si sappia che, in tal caso, è una traduzione dal latino alla lingua della felicità.

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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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