Cosa intende Alessio Forgione quando dice ‘il nostro meglio’? Che così si intitola il suo ultimo romanzo dove tutto ruota attorno a un tema: la bellezza di essere stati amati (naturalmente amati); il desiderio, a sua volta, di voler dare bene ad altri; la frustrazione di non riuscirci. Ecco. Il meglio della vita risiede in questa contraddizione, come succede al protagonista del libro che si chiama Amoresano. È stato cresciuto dai nonni a Bagnoli ed ora, studente universitario, vive con i genitori a Soccavo. A segnare la sua vita è stata la nonna, persona semplice ma sagace, coi piedi piantati in terra ma di larghe vedute, capace di discernere chi sia giusto amare. La nonna è, per certi aspetti, il parametro su cui il nipote misura la propria inadeguatezza. Amoresano prepara esami universitari con scarso interesse, si fa qualche canna, suona la chitarra elettrica e gli piacerebbe fare un disco con l’amico Angelo che però non vede l’ora di fuggire a Londra. E’ fidanzato, più che un amore un appiglio scheggioso (“Pensavo: un brutto pezzo di legno che trovi in mare, dopo che la nave su cui viaggiavi è naufragata, rimane pur sempre una buona cosa a cui tenersi, in attesa di tempi migliori.”)
Nasce un’amicizia con Maria Rosaria, la tabaccaia che ha occhi marroni e movenze feline. E’ lei la prima persona a cui, pagando un pacchetto di Camel light, confida senza tanti preamboli: “Mia nonna morirà di cancro, entro sette mesi.” Ed è lei a raggiungerlo in strada mentre si accende una sigaretta per dirgli: “Fumatela qua, questa”. I due trascorreranno un’estate a scambiarsi libri e film, a rivelarsi l’uno all’altra, a desiderarsi. Ma in Amoresano permane qualcosa di irrisolto, il doloroso scarto tra l’amore ricevuto e quello che, pur volendolo, non sa dare. Sullo sfondo ci sono Napoli e Bagnoli dei nostri giorni, con la romba dei motorini, le strade bagnate di pioggia; interni di famiglia con gli odori e le parole della quotidianità (parole che dall’italiano virano, ancor più efficaci, al dialetto). E c’è il tempo presente, anch’esso irrisolto e in sofferenza; a maggior ragione per un ventenne che ‘vorrebbe’ ma non ci riesce.
***
È giugno e non so il perché, ma mia madre non è andata al lavoro. Ha pulito tutta casa, la nostra casa di Soccavo, completamente. E ha parlato al telefono con qualcuno, di me, dicendogli che fa caldo e che sto studiando, nonostante la temperatura esagerata. Ha ripetuto questo concetto diverse volte prima d’attaccare.
Sono seduto al tavolo del soggiorno e studio per l’esame di Economia politica. Sono iscritto a Scienze politiche e mancano dodici giorni all’appello, e ho finito tutto il programma e su di un foglio bianco rifaccio gli stessi grafici decine di volte.
Sotto il culo, sopra la sedia, ho un asciugamano azzurro, per non bagnarla con il mio possibile sudore, perché dice mia madre che c’ha messo una vita intera per comprarsele. E sotto il foglio bianco e il libro ho un altro asciugamano, giallo, perché il tavolo è di vetro e le ci sono volute più di due vite, forse anche tre per mettere insieme i soldi.
Stringo la penna tra le dita e il foglio è quasi pieno. Sento il sudore farsi largo tra i capelli e scendere verso la fronte. Oltre la finestra alle mie spalle ci sono dei bambini che giocano a calcio e non riescono a farlo senza urlare.
Sento il telefono. Sento mia madre dire pronto e non aggiungere altro e i bambini gridano ed io continuo a ripetere, perdendo il senso di quanto sto facendo.
Non importa. Non m’importa nulla dell’università: è appena cominciata e non vedo l’ora che finisca. Quando penso che mi ci vorranno più o meno quattro anni per terminarla e che sono ancora al primo mi dico che se avessi fatto una rapina sarei sicuramente uscito prima dal carcere. Però è anche vero che non avevo piani migliori e la mia famiglia è felice e allora la smetto e mi accorgo di essermi distratto.
Mi stiracchio sulla sedia, faccio un verso strano, riprendo.
I bambini gridano e mia madre continua a stare zitta. Penso che sta ascoltando, perché non so quello che si stanno dicendo e non lo potevo immaginare che si trattava di un silenzio, un puro e semplice silenzio, che è quello che ti esce di bocca quando non hai più parole.
– Ma veramente fai? – dice e la sua voce mi sembra normale. Mi rassicuro e mi inquieto di nuovo, perché riinizia a non dire nulla. – Dio... – mi arriva dalla cucina, da dove sta lei, dopo più di un altro minuto di niente. E non interpreto il suo Dio perché i miei riflessi non erano pronti e perché non ero pronto nemmeno io. Non capisco se è un’invocazione o l’inizio di una bestemmia. Non ho mai sentito mia madre bestemmiare e allora lo catalogo come stupore.
Ok, mi dico, e scrivo e giro il foglio.
La sento soffiarsi il naso, forte, come se piangesse.
Sento ancora del silenzio. Ci faccio attenzione e la mia testa è lì e smetto di scrivere. Non dice più nulla e poi dice di farle sapere. – Chiamami tu, sì, chiamami tu – dice e sento il suono del tasto che ferma la telefonata. La sento di nuovo soffiarsi il naso e aprire e chiudere il mobile dove teniamo la spazzatura. Scrivo, per fare finta di non avere percepito nulla, di non essere stranito. Di non aver agito solo perché non avevo compreso che stava accadendo qualcosa.
Ho la testa bassa e guardo il tavolo. Mamma compare nella mia visuale. Sta appoggiata allo stipite della porta e in una mano ha il telefono e nell’altra un fazzoletto appallottolato. Non indossa le pantofole né i calzini e questo non è da lei. Tira su col naso ed è un suono pieno e sono sicuro che ha pianto; e non alzo la testa, perché sono un vigliacco. Penso al lavoro, che abbia problemi a lavoro, a cose del genere, a cose che per me non hanno alcuna importanza, a cose che reputo ridicole e mi viene voglia d’innervosirmi, per rimarcare almeno a me stesso la distanza che ci separa, a noi due, a me e mia madre, e di giurarmi che io non piangerò mai per il lavoro.
Penso a questo perché non posso pensare che i giorni, così come uno li conosce, diventeranno un’altra cosa e che quelli di prima non esisteranno più.
– Uè – mi dice.
– Uè – le rispondo. Alzo la testa. La guardo. Le lacrime le scendono lungo il viso e per il collo e le bagnano il pigiama. Mi sembra di vedere la macchia allargarsi mentre la osservo.
Ci guardiamo, ma solo per un attimo.
– Nonna ha il cancro. Al pancreas. Le restano sette mesi di vita.
Tira su col naso e riabbasso la testa e sento la gola chiudersi e arrivarmi dritta nel cervello. Guardo il libro e il foglio. Provo a scrivere qualcosa, ma le mie dita non riescono a stringere sufficientemente forte la penna e i bambini continuano a urlare e fa caldo e non ho ancora vent’anni, vent’anni d’irruenza e di tentativi mal calibrati, ed è come se qualcuno mi spegnesse la luce che ho davanti agli occhi. E penso. Penso che questo silenzio che sto creando è vasto e inospitale e vuoto come il mondo.
Tenta di romperlo. – Ma hai capito? – dice e le lacrime mi entrano nel naso e nella bocca.
È come affogare.
Affogare in se stessi.
È un dolore che prende e inghiotte, facendo scomparire tutto il resto.
[…]
Apro gli occhi che sono le quattro passate. La mia maglia è sudata e sento un incendio sulla lingua. Bevo e cerco le sigarette. Cerco le sigarette ovunque e incomincio a innervosirmi. Non le trovo e m’innervosisco del tutto. Vado a comprarle. Cammino sotto i pini e sopra gli aghi che sono caduti dagli alberi e lo vedo da lontano che la tabaccheria è aperta. Mi preparo, mentalmente, all’immagine che ci troverò all’interno. Ovvero Maria Rosaria, di cui conosco il nome, ma che non uso mai. La chiamano tutti la Gatta, perché è sempre seria e non dà confidenza a nessuno, ed io nemmeno così la chiamo, perché la Gatta è un nome offensivo, che ha un qualcosa di sessuale e implica un giudizio. Però è vero, penso, che Maria Rosaria ha un che di felino, a volte, quando muove la testa di scatto per servire qualcuno, senza sorridere, senza essere amichevole, guardandolo dritto negli occhi e giudicandolo, ed è vero che sembra una gatta sul punto di attaccare.
Entro. Mi fermo davanti alla cassa, nell’interruzione di caramelle e liquirizie. Davanti a me ci sono le sigarette e le cartine e sono il solo cliente. C’è profumo di detersivo e l’aria è più fresca che fuori. Lei sta alla fine del bancone, accovacciata, che legge una rivista. Alza gli occhi e mi vede. Continua a leggere e distende la schiena e se ne accende una. Ha dei pantaloni neri e una canottiera azzurra, aderente, ed è bella e arriva. Non parla. Fa un gesto con la testa, spingendo il mento dal basso verso l’alto. Mi guarda dritto negli occhi. Io faccio lo stesso.
– Camel light, per favore – dico e lei si gira, per prenderle, e continua a guardarmi.
Ha gli occhi marroni e tondi e decido di non abbassare i miei. Mi porge le sigarette e allunga l’altra mano, per i soldi. Non dice nulla ed io nemmeno. Continuo a guardarla. Mi dà il resto e rimango immobile e lei apre la bocca. – E questo, mo, che problema tiene? – dice, di me e non a me.
Conto fino a cinque e lo dico per la prima volta ad alta voce. Per la prima volta a qualcuno che non sono io.
– Mia nonna morirà di cancro, entro sette mesi. Cia’ Maria Rosa’. Grazie.
Esco e sono sulla soglia del negozio e apro il pacchetto. Accendo e muovo il primo passo, per scendere dal gradino, verso casa, e lo interrompo, perché sento del caldo sopra la mia spalla.
Mi giro e dal punto dove avverto il calore parte un braccio, con dei braccialetti argentati al polso, che finisce in una spalla, che sopra ha la bretella di una canottiera azzurra. Sotto i pantaloni neri, ai piedi, ha degli zoccoli di pelle bianca, con la suola di legno. La sigaretta sta tra le labbra e sembra lei a parlare, anziché Maria Rosaria.
– Fumatela qua, questa – mi dice.
[da Il nostro meglio di Alessio Forgione, La nave di Teseo, 2021]
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