Si ricorderà che l’anno scorso il Nobel per la letteratura non era stato assegnato a causa degli scandali (molestie sessuali, denari giostrati in modo non troppo trasparente) che avevano terremotato l’austera Accademia reale svedese. Così, si è provveduto quest’anno ad assegnare, in differita, il premio per il 2018. Ed è andato a
Olga Tokarczuk, 57 anni, scrittrice e poetessa tra le più acclamate della Polonia ed apprezzatissima nel mondo (si contano traduzioni in trenta paesi). Nella motivazione del Nobel si è detto della sua "immaginazione narrativa che con enciclopedica passione rappresenta l'attraversamento dei confini come forma di vita", così come si è evidenziato quanto i suoi romanzi siano sempre caratterizzati da "una tensione tra aspetti culturali opposti: natura versus cultura, ragione versus follia, uomini versus donne". Sintesi perfetta per definire questa scrittrice che predilige storie in cui identità, alterità, frontiere, mondi e mondo si con/fondono.
Si legga in proposito il romanzo
I vagabondi, che già nel 2018 le era valso l’International Man Booker Prize e la rosa dei finalisti al National Book Award. Una sorta di libro di viaggio in cui ci si sposta fisicamente, ma ancora di più con la mente, per conoscere, interrogarsi, comprendere. Significativo è l’inizio del romanzo. La narratrice confida che fin da bambina guardava scorrere il fiume Oder e che avrebbe desiderato essere una barca perché “nonostante tutti i pericoli – è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo; che il cambiamento è sempre più nobile della stabilità.” Ecco, dunque, lo spirito di un viaggio attraverso le vite di persone eccezionali. Come
Luisa Chopin che, alla morte del fratello, muove in un mesto viaggio da Parigi a Varsavia per seppellire il cuore di
Fryderyk a casa propria. O
Philip Verheyen, l’anatomista olandese (fu lui a coniare il termine ‘tendine di Achille’) che, generosamente, faceva esperimenti sul proprio corpo. O, ancora, l’incredibile vicenda di
Angelo Soliman, bambino rapito in Nigeria, diventato mascotte alla corte d’Austria e, alla morte, irrispettosamente impagliato e messo in mostra per ordine dell’imperatore. Ad ispirare il titolo –
I vagabondi – sono stati invece i bieguni, un popolo di nomadi slavi che si spostano di continuo confidando sull’accoglienza delle persone.
Olga Tokarczuk crede, infatti, che il viaggio, il richiamo al nomadismo è ciò che rende vivi: “ciò che non si muove è soggetto alla disintegrazione, alla degenerazione e a ridursi in cenere, mentre ciò che si muove potrebbe durare addirittura per sempre.”
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IL MONDO NELLA TESTA
Feci il mio primo viaggio attraversando un campo a piedi. Per un bel po’ di tempo nessuno si accorse della mia assenza e per questo riuscii ad allontanarmi tanto. Attraversai tutto il parco e poi, per strade sterrate in mezzo al granoturco e in prati umidi pieni di ranuncoli, divisi in quadrati dai fossi, arrivai fino al fiume. Del resto il fiume era presente ovunque in quella pianura, affiorava dal manto d’erba e sfiorava i campi.
Quando arrivai in cima al terrapieno vidi una specie di nastro mobile, una strada che scorreva oltre la cornice, fuori dal mondo. Se eri fortunata ci potevi vedere delle chiatte, grandi barche piane che scivolavano in entrambe le direzioni, senza prestare attenzione alle rive, agli alberi, alle persone in piedi sul terrapieno, considerati probabilmente instabili e insignificanti punti di riferimento, testimoni del loro movimento pieno di grazia. Da grande, sognavo di lavorare su una barca simile, o meglio di trasformarmi io stessa in una barca.
Non era un grande fiume, era soltanto l’Oder, ma anch’io allora ero piccola. Aveva il suo posto nella gerarchia dei fiumi, come verificai in seguito sulle mappe; abbastanza secondario ma rilevante, un visconte di provincia alla corte di sua maestà il Rio delle Amazzoni. A me comunque bastava, mi sembrava enorme. Scorreva come voleva, non controllato ormai da molto tempo, propenso alle esondazioni, imprevedibile. In alcuni punti vicino alla riva si impigliava in qualche ostacolo sott’acqua e lì si formavano dei mulinelli. Scorreva, sfilava, tutto preso dai suoi obiettivi nascosti all’orizzonte, in qualche luogo lontano al Nord. Non si poteva posare lo sguardo su di lui perché l’avrebbe trascinato all’orizzonte fino a farti perdere l’equilibrio.
A me non rivolgeva la minima attenzione, era troppo concentrata su se stessa la volubile acqua vagabonda nella quale non ci si può mai immergere due volte, come venni a sapere più tardi.
Ogni anno riscuoteva un’ingente somma per portare sulla schiena le barche, perché ogni anno qualcuno annegava nelle sue acque: un bambino che faceva il bagno in un caldo giorno d’estate oppure un ubriaco che per una strana coincidenza aveva raggiunto, barcollando, il ponte e, nonostante le barriere, era caduto. Le ricerche degli annegati erano sempre lunghe e frenetiche, e tenevano l’intero circondario in apprensione. Si organizzavano squadre di sommozzatori e motoscafi dell’esercito. A sentire gli adulti, i corpi ritrovati erano gonfi e pallidi, l’acqua li aveva svuotati di ogni traccia di vita, aveva talmente cancellato i tratti dei loro volti che i parenti facevano fatica a riconoscere i cadaveri.
In piedi sul terrapieno, con lo sguardo concentrato sulla corrente, mi resi conto che – nonostante tutti i pericoli – è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo; che il cambiamento è sempre più nobile della stabilità. Ciò che non si muove è soggetto alla disintegrazione, alla degenerazione e a ridursi in cenere, mentre ciò che si muove potrebbe durare addirittura per sempre. Da quel momento il fiume diventò come un ago conficcato nel sicuro e stabile panorama che mi circondava: il parco, le serre in cui le verdure crescevano in piccole file tristi, i marciapiedi lastricati di cemento sui quali si giocava a campana. Questo ago lo bucava da parte a parte, tracciando in verticale la terza dimensione; così infilzato, il panorama della mia infanzia non era altro che un giocattolo di gomma dal quale fuoriusciva tutta l’aria con un fischio.
I miei genitori non appartenevano propriamente a una tribù stanziale. Si erano trasferiti molte volte da un posto all’altro, fino a quando si fermarono per un periodo più lungo vicino a una scuola di provincia, lontani da qualsiasi strada che potesse definirsi tale e dalla stazione ferroviaria. Il solo uscire e superare la strada sterrata per andare in paese costituiva già un viaggio. Poi c’erano la spesa, le faccende burocratiche negli uffici comunali, il parrucchiere in piazza vicino al municipio, sempre con lo stesso grembiule lavato e candeggiato senza risultato, perché la tinta per capelli delle clienti gli aveva impresso macchie che sembravano ideogrammi cinesi. La mamma si tingeva i capelli e il papà l’aspettava nel bar Nowa, seduto a uno dei due tavolini all’esterno, leggendo il giornale locale sul quale la rubrica più interessante era quella di cronaca nera, con notizie su scantinati depredati di marmellate di prugne e cetriolini.
E poi c’erano le temute vacanze, con la Škoda sempre piena zeppa. Preparate a lungo, pianificate nelle sere di inizio primavera quando la neve si era appena sciolta ma la terra non si era ancora risvegliata; bisognava aspettare che concedesse il proprio corpo all’aratro e alla zappa per farsi fecondare con un lavoro che durava da mattina a sera.
Appartenevano alla generazione che viaggiava con il carrello tenda, portandosi dietro un surrogato della casa. La cucina da campeggio, sedie e tavolo pieghevoli, il cavo in plastica per appendere il bucato e le mollette in legno; la cerata impermeabile per il tavolo, il set per il picnic: piatti, posate, saliera e bicchierini in plastica colorata.
Da qualche parte lungo la strada, in uno dei mercatini delle pulci che amava visitare con mia madre (quando non erano intenti a fotografarsi sotto i monumenti o davanti alle chiese), mio padre aveva comprato un bollitore militare in rame – un recipiente con un tubo al centro nel quale si infilava uno stoppino da accendere. E anche se nel campeggio si poteva usare la corrente elettrica, lui preparava l’acqua con quel bollitore che faceva fumo e creava scompiglio. Stava inginocchiato sul recipiente e ascoltava fiero gorgogliare l’acqua bollente che poi avrebbe versato sulla bustina del tè, da vero nomade.
Si fermavano in luoghi stabiliti, nei campeggi, sempre in compagnia di loro simili e attaccavano bottone con i vicini, circondati da calze appese ad asciugare ai cavi delle tende. Il tragitto del viaggio veniva stabilito con l’aiuto di una guida, che evidenziava meticolosamente tutte le cose interessanti da vedere. Prima di mezzogiorno il bagno nel mare o nel lago, e nel pomeriggio la visita ai monumenti antichi delle città che si concludeva con la cena, quasi sempre con barattoli di gulasch o polpette in salsa di pomodoro. Bisognava cucinare soltanto pasta o riso. Era un continuo risparmiare, gli złoty polacchi valevano poco, erano gli spiccioli del mondo. C’era la ricerca dell’allacciamento alla corrente elettrica e poi lo svogliato prepararsi per proseguire, nonostante i viaggi rimanessero sempre all’interno della stessa orbita metafisica di casa. Non erano dei veri viaggiatori perché partivano per tornare. E tornavano con un senso di sollievo e la sensazione di aver compiuto il proprio dovere. Tornavano per prendere dalla credenza una pila di lettere e di bollette e fare un gran bucato. Per annoiare a morte gli amici mostrando loro le foto delle vacanze, mentre questi sbadigliavano senza farsi notare: qui siamo noi a Carcassonne, qui c’è mia moglie e sullo sfondo l’Acropoli.
Poi, per tutto l’anno, conducevano una vita sedentaria, quella strana vita in cui al mattino si ritorna su quanto si è lasciato incompiuto la sera prima, dove i vestiti si impregnano dell’odore del proprio appartamento e i piedi infaticabili tracciano sentieri d’usura sul tappeto.
Questa vita non faceva per me. Evidentemente mi mancava quel gene che fa sì che quando ti trattieni a lungo in un certo luogo ci metti le radici. Ci ho provato molte volte, ma le mie radici erano sempre troppo corte e bastava un soffio di vento per farmi ribaltare. Non riuscivo a germogliare, ero sprovvista di quella dote vegetale. Non assorbo nutrimento dalla terra, sono il contrario di Anteo. Traggo la mia energia dal movimento, dagli scossoni di un autobus, dal rombo di un aereo, dal dondolio dei traghetti e dei treni.
[da
I vagabondi di
Olga Takorczuk, trad. di
Barbara Delfino, Bompiani, 2019]