Il maratoneta di Franco Faggiani vince sulla vita

Luigi Oliveto

23/05/2019

Il personaggio è realmente esistito, la sua vicenda altrettanto vera, anche se – così come la leggiamo – è dilatata agli spazi della fantasia e alle suggestioni della poesia. Parliamo del romanzo “Il guardiano della collina dei ciliegi” di Franco Faggiani, storia del maratoneta giapponese Shizo Kanakuri, che fin da giovanissimo eccelleva nella corsa, al punto di essere scelto dall’imperatore Mutsuhito in persona per rappresentare il Giappone alle Olimpiadi svedesi del 1912: “Mi hanno detto che la sua falcata ormai assomiglia a quella di una cicogna quando sta per spiccare il volo, che i suoi piedi sussur­rano all’erba e che le sue braccia si alternano come gli stantuffi di una locomotiva che viaggia veloce.” Così il giovane studente di economia all’università di Tokyo parte alla volta di Stoccolma per tenere alto il prestigio del suo Paese e, secondo gli intendimenti dell’imperatore, per contribuire all’instaurazione di rapporti diplomatici con l’Occidente. In gara Shizo è il favorito, fiero di sé e della bandiera che rappresenta, veloce fende l’aria senza cedimenti, i suoi piedi “sussurrano” anche su quella terra straniera. A meno di sette chilometri all’arrivo, accade, però, qualcosa che nemmeno lui sa spiegarsi. Si ferma confuso e perso; e, non di meno, avvilito per aver disonorato il suo impegno. Non resta, allora, che sparire, darsi alla fuga. Troppa è la vergogna e l’umiliazione. Si arruolerà per due anni nella Legione Straniera, poi, in modo del tutto anonimo, rientrerà in Giappone, ritirandosi in un luogo sperduto a fare il guardiano di una collina di ciliegi (“Da lassù, oltre le cime dei ciliegi, lo scenario era ancora più seducente. Una grande e densa nuvola compatta di petali ricopriva la collina su ogni versante, avvallamento, ondulazione. Il profumo inebriava l’intera valle. Mi sembrò di essermi librato in volo, tanta era la vertigine che provai.”) Da lassù, attraverso il tempo della riflessione e di non poche vicissitudini, Shizo ricostruisce la propria vita fino a tornare a Stoccolma, andare nel punto preciso dove, un tempo, la sua corsa si era fermata. A passo di marcia rimuove verso il traguardo e questa volta lo raggiunge. A suo modo segna un record. Conclude la gara con il tempo di 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti e 20 secondi. Si sarà capito che il libro di Faggiani è un libro sulla vita, su come la vita stessa sperimenti in noi il perdersi e il ritrovarsi, il fulgore e il buio; il tempo della corsa e della sosta, del fare e del pensare.
 
 
***
 
A Tokyo la mia vita prese strade decisamente diverse. Sempre per intromissione paterna, trovai una stanza in un piccolo santuario dove i fedeli andavano a portare offerte ai kami. Era difficile evitare i loro sguardi curiosi quando all’alba uscivo per andare a correre, con quell’abbigliamento insolito e le scarpe gommate, in qualche terreno incolto alla periferia della città, fino ai boschi affacciati sul fiume Tama, che sfiora i monti a ovest per poi diluirsi nella baia. Correvo senza voler dare nell’occhio e senza velleità, per mantenere con la natura quel legame che, per le incognite delle nuove giornate e l’imposizione delle regole universitarie, temevo si sfilacciasse. Correre restava la mia forma di preghiera.
All’università strinsi una reverenziale amicizia con Jigoro Kano, anche lui nato, trentuno anni prima di me, in un villaggio di mare, in una famiglia benestante e con un padre opprimente. Il signor Kano praticava molti sport occidentali e, al tempo stesso, studiava le antiche regole delle arti marziali, per riportarle in vita. Oggi nel mondo migliaia di scuole di judo portano il suo nome; allora era un educatore molto apprezzato per come sapeva organizzare le cose e per quello che faceva a favore dello sport moderno. Per esempio era un grande giocatore di baseball e l’imperatore lodava spesso queste sue abilità, poiché utili ad avvicinare il Giappone all’Occidente. Lo sport allora era una carta eccellente da giocare sul tavolo delle nuove alleanze.
Il signor Kano mi notò un giorno in cui, in ritardo come al solito, forse per fare un inutile dispetto a mio padre, stavo correndo verso le aule attraversando il piccolo parco che si estendeva tra gli edifici universitari. Rimase attratto dalla mia andatura sgraziata ma veloce e priva di affanni. Poco tempo dopo mi avvicinò, proponendo di affiancarmi un allenatore, uno studente anziano che aveva soggiornato a lungo in America: il suo compito era di affinare il mio stile, rendere la falcata più efficace, portare le ginocchia più in alto, tenere il busto eretto, dal momento che io lo tenevo proteso come una prua, per fare resistenza al vento delle creste montuose e per potermi infilare più facilmente tra gli arbusti del sottobosco.
Al mattino dunque correvo seguendo la mia inclinazione naturale, per assaporare quella libertà che non prevede obblighi, per ringraziare i kami, nonostante si fossero schierati dalla parte di mio padre. Dopo le lezioni, prima del crepuscolo, correvo su una pista pianeggiante e ben battuta quasi per dovere, per non dispiacere al mio Maestro. Erano esercizi monotoni, compressi, esecuzione di gesti sempre uguali, che andavano contro il mio istinto, la mia spontaneità. Tuttavia questa corsa per me innaturale, una sequenza di azioni precise e meccaniche, fece in modo che i tempi in cui percorrevo le stesse distanze diminuissero. Così mi spiegò una sera, in uno dei suoi rari momenti di confidenza, l’allenatore, Takumi Yamashita, che Jigoro Kano chiamava sbrigativamente Taku. Quando correvo lungo la pista che girava intorno ai prati esterni agli edifici universitari, che da giugno a ottobre esplodevano in mille colori floreali, Taku, più che osservare me, teneva gli occhi fissi sull’orologio che estraeva dal taschino del panciotto. Ogni tanto, passandogli vicino, notavo i suoi piccoli sorrisi di soddisfazione per i buoni risultati. Poi, con un semplice cenno della mano, lui mi faceva intendere che l’allenamento era finito e se ne andava a passi veloci, senza parlare, oscillando l’orologio assicurato al panciotto da una catena d’oro, come fosse un pendolo.
Andò avanti così per molti mesi, fin quando venni chiamato dal signor Kano, che mi ricevette in una delle sue stanze completamente arredate all’occidentale, con tappeti, cassettiere, divani e un grande tavolo ovale di cristallo circondato da pompose sedie imbottite. Mi chiese, anche se immaginavo lo sapesse benissimo, come stavano andando gli studi, in particolare quelli della lingua inglese, necessaria per la mia futura carriera di economista nella quale avrei sicuramente fatto affari con l’estero. Studiare inglese allora era un privilegio riservato solo agli studenti migliori, perché un giorno, secondo i piani dell’imperatore, avrebbero rappresentato il Giappone nel mondo. Io non avevo ancora dato grandi prove nello studio ma mi ero ritrovato iscritto ai corsi di inglese, senza meriti particolari. Avevo pensato che, anche in questo caso, ci fosse stato l’intervento di mio padre. Il signor Kano volle poi sapere come mi ero sistemato, se mangiavo bene e se avevo amici con cui discutere, passeggiare o andare a pesca.
«Sono soddisfatto di come stanno andando le cose», fu la mia risposta. «Anche se di amici non ne ho, a parte qualche compagno di studi. Inoltre non amo la pesca, preferisco trascorrere il poco tempo libero da solo nei boschi che salgono verso le montagne a ovest della città, nella prefettura di Kanagawa. Le valli lì sono ancora selvagge».
Sembrò felice della mia risposta; per tutto il tempo era rimasto in piedi facendo impercettibili cenni di assenso con la testa, tenendo gli occhi socchiusi. Prima di congedarmi mi mise tra le braccia un grosso involucro di tela, fino a quel momento nascosto dietro la spalliera di un divano dal tessuto damascato, e mi invitò ad aprirlo.
Rimase silenziosamente a guardare mentre con un certo impaccio slegavo i nastri che stringevano il pacco. Dentro c’erano pantaloni bianchi morbidi e leggeri, una maglia dello stesso colore e consistenza ma con il colletto rosso, un paio di scarpe di cuoio tenero con una sottile suola gommata che ne accentuava la flessibilità. Sicuramente erano indumenti provenienti dall’America, pensai.
«Con questi andrà ancora più veloce», disse con un sorrisetto compiaciuto. «Un piccolo regalo da parte di tutti gli insegnanti», aggiunse spostando lo sguardo su dei documenti che erano allineati sul tavolo ovale.
Mi congedai con un inchino arretrando contemporaneamente di tre passi, verso la porta.
 
[da Il guardiano della collina dei ciliegi di Franco Faggiani, Fazi, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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