Il mago dell’aria. I limiti esistono solo per chi è a corto di sogni

Luigi Oliveto

11/09/2024

Accadde cinquant’anni fa, ma in molti lo ricordano. Erano le 7 di mattina del 7 agosto 1974, quando, a New York, il venticinquenne Philippe Petit, funambolo, mimo, giocoliere, tende da una torre all’altra del World Trade Center (le Torri Gemelle) un cavo d’acciaio spesso 3 centimetri e lungo 42 metri. Vi sale sopra e con il solo aiuto di un’asta per l’equilibrio, sospeso a più di 400 metri da terra, privo di qualsiasi sistema di sicurezza, lo percorre otto volte, avanti e indietro. La traversata dura 45 minuti. Al termine dell’impresa la polizia di New York lo arresta, ma il procuratore distrettuale dinanzi a un reato tanto eccentrico e di tale risonanza mediatica troverà impropria l’applicazione alla lettera della legge. Così il reo di funambolismo, con sentenza esemplare, verrà condannato a esibirsi per i bambini a Central Park. A quella pazza e incredibile camminata – che dopo l’attentato e la caduta delle Torri Gemelle riappare nei nostri ricordi quanto mai sospesa sul vuoto – sono stati dedicati libri e film. Ora è la volta di un romanzo, “Il mago dell’aria”, di Mauro Garofalo, che, però, non è incentrato sull’epica impresa, ma sulla vita del suo protagonista. Perché per riuscire a camminare contro il cielo occorrono anni di sogni, bizzarrie, lunghi esercizi di funambolismo filosofico. Ecco allora il racconto dell’artista da giovane che Garofalo ricava dalla vera biografia di Philippe Petit o da quanto alla fantasia piace ritenere veritiero. Conosciamo, così, Philippe bambino (bambino ‘problematico’) cui fin da subito sta stretta la realtà che lo circonda: la famiglia, la scuola, il mondo dei grandi. Lui, ad esempio, questo pensava dell’istituzione scolastica: “Fossili, li chiamavo io. Insegnanti di niente, che si attenevano ai programmi. E gli insetti morti inchiodati nelle ore di Scienze, sotto gli occhi divertiti di una mandria di stupidi ragazzini che non si rendevano conto che quegli insetti eravamo noi! Quello era il modo in cui le autorità disposte volevano che diventassimo, con i nostri voti e le cartelline ben organizzate: adulti acquiescenti con lavori possibilmente che non amavamo, dove avremmo guadagnato abbastanza soldi per dimenticarci di chi eravamo. Soldi al posto del nostro prezioso tempo, che non ci avrebbe ridato indietro nessuno.” Forse l’autore attribuisce al piccolo Philippe una consapevolezza di sé e del mondo un po’ troppo sproporzionata all’età. Ma è chiaro come in quel bambino, poi ragazzo e adulto (il racconto di Garofalo è a suo modo un romanzo di formazione) si fosse già annidata un’idea di vita niente affatto omologata, e un pensiero su tutti: “la possibilità di far accadere l’irriuscibile”. Questo provò a fare Philippe Petit – e ci riuscì – quella mattina d’agosto di mezzo secolo fa, camminando a 400 metri da terra, sulla testa delle persone che un po’ alla volta diventarono pubblico a un inconsueto spettacolo; anzi, alla dimostrazione di come “i limiti esistono soltanto nell'anima di chi è a corto di sogni” (così avrebbe poi scritto lo stesso Petit in un trattato di funambolismo, che forse è anche un trattato sulla vita). Con scrittura brillante e partecipe, il romanzo di Garofalo tiene bordone a questa tesi.
 
***
 
Tutto precipitò dopo quell’estate al rientro a scuola: mangiavo poco e niente, strappavo le pagine del diario sulle quali i professori appuntavano note di demerito: “Suo figlio non si applica. Suo figlio non ascolta. Oggi suo figlio si è arrampicato sul cornicione. Oggi, signor Petit, Philippe è stato scortese con una sua compagna”. Stronza che mi prendevi in giro solo perché non sapevi arrampicarti sugli alberi. “Alla cortese attenzione dei genitori di Philippe, vi preghiamo di venire a prendere vostro figlio in orario, da adesso in poi.”
Fossili, li chiamavo io. Insegnanti di niente, che si attenevano ai programmi. E gli insetti morti inchiodati nelle ore di Scienze, sotto gli occhi divertiti di una mandria di stupidi ragazzini che non si rendevano conto che quegli insetti eravamo noi! Quello era il modo in cui le autorità disposte volevano che diventassimo, con i nostri voti e le cartelline ben organizzate: adulti acquiescenti con lavori possibilmente che non amavamo, dove avremmo guadagnato abbastanza soldi per dimenticarci di chi eravamo. Soldi al posto del nostro prezioso tempo, che non ci avrebbe ridato indietro nessuno.
L’insegnante di Scienze mandò a chiamare i miei per l’ultima volta.
«È pazzo.»
I miei compagni all’inizio avevano riso, poi dopo un po’ avevano cominciato a spaventarsi. E io a chiudermi sempre di più.
Il mio, un rumore bianco appena percettibile, dentro un castello che già a quell’epoca iniziava a franare. E io, una pietra scagliata lontano. Un drago a quattro teste.
Quando gli altri parlavano di noi usavano le metafore più strambe: noi era la mia famiglia, per gli altri niente era normale nella mia famiglia, il che significava che noialtri per la cosiddetta società non eravamo “normali”, solo che io non lo sapevo.
[...]
Del resto, il mondo si avviava verso l’era della sovrapproduzione e del carbon fossile, del capitalismo a tutti i costi e dell’esplosione del debito pubblico. Insomma, dopo l’illusione del dopoguerra il mondo era finalmente un fiume in secca. Infatti, quando non ce la facevo più, mio padre mi portava in campagna dai nonni. Almeno lì potevo rifugiarmi al fiume, giù con l’acqua alta alle gambe tra i canneti. Alcune volte mi stendevo accanto alle radici degli alberi e me ne stavo lì zitto a sentire il linguaggio segreto degli alberi, a guardare il cielo tra i rami.
A mio modo cercavo un motivo per vincere la solitudine.
Dopo scuola infatti tornavo a casa e subito uscivo di nuovo, pur di non vedere mia madre distratta, senza cura.
Altre volte invece scappavo direttamente da scuola, tipo dalle finestre grandi del primo piano.
“Signor Petit, oggi suo figlio è entrato in classe dopodiché si è lanciato dalla finestra mettendo in pericolo non solo se stesso vieppiù la nostra istituzione scolastica e allo stesso modo i suoi compagni che, guardando ai suoi assurdi comportamenti, potrebbero imitarlo, e dunque per tale ragione, signor Petit, la informiamo di non essere più disposti ad accogliere suo figlio nel nostro Istituto e che per tale ragione da domani bla bla bla eccetera eccetera.” Questa era la lettera standard che scrivevano indirizzandola a mio padre... non lo avevano capito che mi comportavo così per non guardare la resina che colava, inevitabile, sulle vite di ognuno di noi. Loro non la vedevano ma io sì.
Così ero finito in un’altra scuola. Che mi piaceva di più. Intanto, aveva un giardino enorme dove mi potevo nascondere, e poi pure le panchine di legno. Un giorno, però, avevo rubato l’astuccio a Patrizio, il mio compagno di banco, un ragazzino biondo e pacioso la cui famiglia veniva dall’Italia.
«Guarda, nevica!» gli avevo detto che era quasi giugno, e invece lui ci era cascato, la bocca aperta come quella di un merluzzo e il naso all’insù. Tutti si erano messi a ridere, quindi, disinteressati al tentativo di ripristinare l’ordine del professore, avevano cominciato a battere le mani e prendere in giro Patrizio.
A mia discolpa posso dire che non volevo. Patrizio poi era stato sempre buono con me, uno dei pochi. Spesso mi offriva un po’ della sua merenda, visto che non ce l’avevo. Una volta mi aveva perfino regalato una gomma da cancellare perché si era reso conto che il mio astuccio era spesso vuoto, nonostante gli insegnanti ci chiedessero di portare sempre tutto il materiale.
Gli avevo detto quella cosa della neve perché in fondo non sopportavo che si lasciasse dire dai suoi genitori cosa avrebbe dovuto fare da grande; più probabilmente, perché ero invidioso che lui avesse due genitori “normali”, di quelli insomma che si preoccupano del tuo futuro mentre io, ecco, io al più ero un gas effimero, come l’elio: inodore e disciolto nell’aria. Guardavo Patrizio e immaginavo il fulgido destino che gli avevano disegnato intorno, e non solo i parenti ma anche la scuola, il mondo dei grandi, in generale: sarebbe diventato un impiegato in banca o che so io, il sindaco di un piccolo paese con i capelli brizzolati e la dentiera.
E io? Che avrei fatto io? A me bastava non sentire il rumore del mondo. E volevo fare qualcosa di grande. E un giorno ci sarei riuscito.
 
[da Il mago dell’aria di Mauro Garofalo, Mondadori, 2024]
 
Torna Indietro
Lascia un Commento

Scrivi un commento

Scrivi le tue impressioni e i commenti,
verranno pubblicati il prima possibile!

Ho letto l'informativa sulla privacy e acconsento al trattamento dei dati personali ai sensi dell'art. 13 D. lgs. 30 giugno 2003, n.196

Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

Vai all' Autore

Libri in Catalogo

NEWS

x

Continuando la navigazione o chiudendo questa finestra, accetti l'utilizzo dei cookies.

Questo sito o gli strumenti terzi qui utilizzati utilizzano cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner o proseguendo la navigazione, acconsenti all’uso dei cookie.

Accetto Cookie Policy
X
x