Quella degli indiani d’America è una sofferta storia di identità culturali, di fiere lotte per salvaguardarle, di emarginazioni e degrado sociale. A riproporla è il romanzo di Louise Erdrich “Il guardiano notturno” (Feltrinelli) dove si raccontano le vicende della riserva indiana della Turtle Mountain, nel Nord Dakota, quando nell’agosto 1953 il Congresso degli Stati Uniti annunciò una proposta di legge per abrogare i trattati bilaterali con le nazioni indiane d’America “finché crescerà l’erba e scorreranno i fiumi”. Ciò avrebbe significato l’immediata estinzione di cinque tribù indiane, tra cui la piccola comunità dei chippewa della Turtle Mountain. Nel suo ruolo di presidente tribale, Thomas Wazhashk (nonno dell’autrice) si oppose fermamente a un siffatto disegno e, insieme ad altri personaggi di fantasia, è il protagonista del romanzo. È lui, infatti, che per guadagnarsi da vivere fa il guardiano notturno nella vicina fabbrica in cui, mani femminili, incollano microscopici rubini per gli ingranaggi degli orologi Bulova. Nelle lunghe notti insonni, Thomas Topo Muschiato – uomo mite ma determinato – scrive lettere ai membri del Congresso affinché la riserva della Turtle Mountain possa continuare ad esistere. Affronterà anche un interrogatorio da parte del senatore Arthur V. Watkins, l’accanito sostenitore della spoliazione dei nativi. Nella finzione letteraria, co-protagonista è la nipote diciannovenne Pixie Paranteau che, però, desidera essere chiamata Patrice. Pure lei lavora nella fabbrica di rubini, ed è la sua vita a darci uno spaccato del disagio sociale presente nella comunità. Tutta la famiglia vive del suo stipendio, il padre è un nullafacente alcolizzato, la madre lavora saltuariamente, il fratello è ancora giovane, la sorella maggiore si è trasferita a Minneapolis con il proprio uomo ed è finita in brutti giri. Pixie ha i suoi turbamenti giovanili. L’insegnante bianco Barnes è cotto di lei, anche il pugile Wood Mountain la corteggia. La trama è sorretta da una coralità di personaggi e da atmosfere di grande suggestione (dovremmo parlare anche in tal caso di ‘realismo magico’) che Louise Erdrich sa trasmettere con scrittura precisa, venata di ironia, sempre sospesa tra incanto e disincanto.
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Thomas Wazhashk si sfilò il thermos da sotto l’ascella e lo poggiò sul piano d’acciaio accanto alla borsa coperta di segni. La giacca da lavoro di tela finì sulla sedia, il contenitore del cibo sul freddo davanzale della finestra. Quando si tolse il berretto imbottito, dal paraorecchie cadde una mela selvatica. Un dono di sua figlia Fee. La agguantò al volo e la collocò in bella vista sulla scrivania. Poi timbrò il cartellino. Mezzanotte. Prese l’anello delle chiavi, una torcia aziendale e cominciò il giro del pianoterra.
In quel grande spazio silenzioso, sempre silenzioso, le donne della Turtle Mountain passavano le loro giornate chine nella luce cruda delle lampade da lavoro. Le donne incollavano microscopiche sezioni di rubino, di zaffiro, o del meno pregiato granato, su sottili mandrini verticali pronte per essere forate. I rubini erano destinati ad apparecchiature del dipartimento della Difesa e agli orologi Bulova. Era la prima volta che nei pressi della riserva si creavano posti di lavoro nell’industria e quelle ambite posizioni erano coperte quasi tutte da donne. Nelle prove di abilità manuale avevano ottenuto punteggi nettamente superiori.
Il governo attribuiva le loro capacità al sangue indiano e alla consuetudine a lavorare con le perline. Thomas pensava che fosse grazie alla loro vista acuta: le donne della sua tribù sapevano trapassarti con uno sguardo. Era stato fortunato a ottenere quel posto. Era in gamba e onesto, ma non più giovane e aitante. Il lavoro l’aveva avuto perché era affidabile e metteva tutto se stesso per fare ciò che doveva al meglio delle sue possibilità. Compiva le sue ispezioni con impeccabile scrupolosità.
Nel suo giro, controllò la sala foratura, provò tutte le serrature, accese e spense le luci. A un certo punto, tanto per migliorare la circolazione, fece un piccolo balletto tutto suo e poi si lanciò in una indiavolata giga tradizionale. Rinvigorito, varcò le porte corazzate della sala del lavaggio chimico, con le sue file di becher numerati, manometri, tubi, vasche e stazioni di lavaggio. Ispezionò gli uffici, i bagni con le piastrelle verdi e bianche e fece ritorno all’officina. La sua scrivania era rischiarata dalla luce della lampada difettosa che aveva recuperato e riparato da solo, così poteva leggere, scrivere, riflettere e di tanto in tanto darsi degli schiaffi per tenersi sveglio.
Thomas doveva il suo nome al topo muschiato, wazhashk, l’umile, laborioso roditore amante dell’acqua. Topi muschiati ce n’erano ovunque nei mille acquitrini della riserva. Al crepuscolo sbucavano dall’acqua, piccole sagome sinuose affaccendate, eternamente intente a rifinire le proprie tane e a mangiare (quanto amavano mangiare) praticamente qualsiasi cosa che cresceva o si muoveva in un acquitrino. Per quanto i wazhashkag fossero numerosi e comunissimi, erano tuttavia fondamentali. All’inizio, dopo il grande diluvio, era stato un topo muschiato che aveva aiutato a rifare la terra.
Da questo punto di vista, come si vedrà, Thomas portava un nome perfettamente adeguato.
Pixie Paranteau mise una punta di mastice su un rubino grezzo e lo fissò sul blocchetto per la foratura. Poi con le pinzette prese il rubino così preparato e lo inserì nel suo minuscolo alloggiamento sulla scheda di perforazione. Quando era arrabbiata faceva tutto alla perfezione. Sguardo concentrato, mente focalizzata, respiro controllato. Il soprannome Pixie le era rimasto incollato fin da bambina, per via degli occhi all’insù. Era dai tempi del diploma alle superiori che cercava di farsi chiamare Patrice. Non Patsy, non Patty, non Pat. Ma anche la sua migliore amica si rifiutava di chiamarla Patrice. E la sua migliore amica era seduta di fianco a lei, e anche lei disponeva rubini grezzi in interminabili, minuscole file. Non era veloce come Patrice, ma era la seconda di tutte le ragazze e le donne. Lo stanzone era silenziosissimo a parte il ronzio dell’impianto di illuminazione. I battiti del suo cuore rallentarono. No, non era una Pixie, anche se era di corporatura minuta e la gente diceva wawiyazhinaagozi, la cui insopportabile traduzione significava “carina”. Patrice non era carina. Patrice aveva un lavoro. Patrice era al di sopra di insignificanti episodi come quello di Bucky Duvalle e i suoi amici, che le avevano dato un passaggio portandola in aperta campagna per poi andare in giro a raccontare di quanto fosse disponibile a fare cose che non aveva mai fatto. E che non avrebbe fatto mai. E guardalo ora, Bucky. Non che qualcuno potesse dare la colpa a lei per quello che gli era successo alla faccia. Patrice non faceva cose del genere. Patrice era anche al di sopra di quella che trovava il vomito scuro della lunga bisboccia di suo padre sulla camicetta che aveva messo ad asciugare in cucina. Il padre se ne stava in casa ringhiando, sputando, assillante, piagnucolando, minacciando il fratellino, Pokey, e supplicando Pixie perché gli desse un dollaro, anzi un quarto di dollaro, anzi qualche moneta. Nemmeno una monetina piccola così? E provava ad avvicinare pollice e indice senza riuscirci. No, non era lei la Pixie che aveva nascosto il coltello e aiutato sua madre a trascinare il padre sulla branda nel capanno, dove sarebbe rimasto a dormire fino a smaltire l’effetto del veleno.
Quella mattina, Patrice si era messa una vecchia camicetta, era andata fino allo stradone e per la prima volta aveva avuto un passaggio in macchina con Doris Lauder e Valentine Blue. La sua migliore amica aveva un nome poeticissimo e nemmeno lei la chiamava Patrice. In macchina Valentine si era seduta davanti. Le disse: “Come si sta sul sedile di dietro, Pixie? Spero che sia comodo”.
“Patrice,” disse Patrice.
E Valentine zitta.
Valentine! Che continuava a parlare con Doris Lauder su come si faceva una torta con sopra la noce di cocco. Noce di cocco. C’erano forse palme da cocco in un raggio di mille miglia lì attorno? Valentine. Che aveva addosso una gonna scampanata color arancio scuro e oro. Bella come un tramonto. E che non si voltava nemmeno una volta. Che muoveva le mani infilate nei suoi guanti nuovi in modo che Patrice potesse vederli e ammirarli, sia pure dal sedile posteriore. E che poi scambiava con Doris consigli su come togliere una macchia di vino da un tovagliolo. Come se Valentine avesse mai avuto un tovagliolo. O bevesse vino rosso, se non quando era in giro per la boscaglia. E che ora trattava Patrice come se neanche la conoscesse perché Doris Lauder era una bianca appena arrivata allo stabilimento di rubini, una segretaria, che veniva al lavoro con la macchina di famiglia. Doris si era offerta di passare a prendere Valentine e Valentine aveva detto: “Anche la mia amica Pixie è di strada, se per te…”.
E aveva tirato dentro anche lei, che è quello che deve fare la tua migliore amica, poi però la ignorava e si rifiutava di usare il suo vero nome, il nome da cresimata, il nome con cui – cosa magari imbarazzante da dire, ma lei lo pensava lo stesso –, il nome con cui si sarebbe fatta strada nel mondo.
Il signor Walter Vold scendeva lungo la fila di donne, le mani dietro la schiena, osservando di sottecchi il loro lavoro. Ogni due o tre ore usciva dal proprio ufficio e ispezionava tutti i reparti. Non era vecchio, ma aveva due gambe secche che scrocchiavano. Quando faceva un passo, le ginocchia scattavano in alto. Quel giorno si sentiva un fruscio intermittente. Probabilmente i suoi pantaloni, neri, di stoffa lucida e rigida. C’era lo scricchiolio delle suole sul pavimento. Si fermò dietro di lei. In mano, una lente di ingrandimento. Sporse sopra la sua spalla la mandibola sudata e larga come una scatola da scarpe, l’alito che sapeva di caffè. Lei continuò a lavorare e le sue dita non tremarono.
“Ottimo lavoro, Patrice.”
Visto? Tiè!
L’uomo passò oltre. Fruscio. Scricchiolio. […]
[da Il guardiano notturno di Louise Erdrich, trad. di Andrea Buzzi, Feltrinelli, 2021]
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