Si perdoni l’aggettivo ‘bello’, così generico e frusto, ma il romanzo di Matteo Melchiorre, “Il Duca” (Einaudi) non può che dirsi tale. Bello per impianto narrativo, qualità di scrittura, temi evocati. “Il Duca” è il soprannome appioppato dalla popolazione di Vallorgàna all’ultimo discendente di una casata ormai scomparsa, i Cimamonte. Il giovane erede, che a rigore di discendenze nobiliari andrebbe chiamato “il Conte”, da una decina di anni ha scelto di vivere nella villa di famiglia, al centro della tenuta che sovrasta quel piccolo paese di montagna. Vi abita in solitudine, fuori anche dal microcosmo locale. È persona colta, riflessiva. Se può permettersi una siffatta vita è “senza merito alcuno”; grazie alle “risorse più che bastanti e finite nelle mie mani, a caduta, per via delle straordinarie fortune accumulate nei secoli dai miei avi”. Impiega il tempo in lavoretti di manutenzione dell’edificio o studiando vecchi libri di famiglia, quel “genere di occupazioni che un patrimonio discretamente cospicuo pur sempre richiede; patrimonio, a ogni modo, la cui amministrazione da parte mia non ha mai dovuto essere né particolarmente oculata né particolarmente parsimoniosa”. Un’esistenza tranquilla e aliena, fino al giorno in cui Nelso Tabióna, suo fidato uomo tuttofare, gli bussa ai vetri di una finestra, con “negli occhi un che di scontroso, di stizzito”. Ha da riferirgli una brutta cosa: nei boschi della tenuta Cimamonte qualcuno ha sconfinato e tagliato abusivamente alberi per almeno seicento quintali di legna. Dietro al furto c’è Mario Fastréda, tenace ottantenne, soggetto infido che da tempo detta legge in paese. Il Duca non è certo persona che, per indole e intelligenza, cercherebbe la rissa, ma si accorge che qualcosa inizia ad accendergli il sangue. Forse l’orgoglio della stirpe, un sopito senso della proprietà. Inizia così una snervante battaglia legale con opposti schieramenti di avvocati, geometri, evanescenti mappe catastali. Proprio le molte ore spese a compulsare documenti che stabiliscano sine dubio i confini della proprietà, riveleranno un incredibile deposito di memorie locali, tramandate ma pure rimosse. A tutt’altri codici, poi, fa riferimento Nelso, amichevole consigliere del Duca, per il quale vige la legge non scritta dei boschi e della montagna. Con il ritmo del migliore romanzo epico, il lettore si trova coinvolto in un’affascinante storia che è tante cose insieme: vicenda sociale, riflessione filosofica, scandaglio di variegata umanità.
***
Le cornacchie erano forse una decina. Sbraitavano. Strepitavano. Svolazzavano. Erano accecate, furiose. Vorticavano in una mischia esasperata, accanendosi tra loro. Poi d’un tratto si sparigliarono, fuggirono via in opposte direzioni e nel cielo sgomberato rimase un viluppo d’ali, un litigio aggrovigliato che roteava e turbinava e che infine, come raggiunto da un colpo di fucile, cadde a picco attraverso il vuoto.
Ma non appena quel groviglio toccò terra, proprio nella corte della villa, distinsi invece una poiana: becco aperto, occhio tremendo, ali basse. Stringeva al suolo, inchiodata con gli artigli, una cornacchia nera, giovane; e quest’ultima agitava le ali, e torceva il capo, e spasimava, in cerca del guizzo con cui salvarsi.
Ritenni giusto intervenire. Presi su una manciata di ghiaino e lo scagliai a pioggia in direzione di quel fatale confronto, sperando con ciò di vederlo risolversi senza sangue. La poiana ne fu appena disturbata. Diede due colpi d’ala, si alzò in volo, trascinò via la cornacchia, disegnando un mezzo cerchio sopra le case di Vallorgàna, e in breve tempo scomparve in lontananza, stingendosi contro i boschi spogli della Montagna.
Il caso mi parve insolito, anzi: prodigioso. Ben diversi, infatti, nei cieli di Vallorgàna, sono gli esiti delle non rare schermaglie tra poiane e cornacchie, attriti feroci e innegoziabili che potrebbero anche essere, per quanto ne so, la perpetuazione di antichissimi rancori. Basta che sentano il grido della poiana in volo e le cornacchie, come sguinzagliate, salgono in quota. Accerchiano la poiana con urla e virate. La attaccano coi becchi, a turno, senza tregua. Il rapace, colto di sorpresa, incredulo, smarrita per un attimo la linearità del volo, volteggia incerto e con ali sgraziate. Ma arriva infine il momento in cui la poiana, trovato un varco, punta in alto; perché lassù, nel cielo libero, v’è una soglia che la poiana trasvola e che le cornacchie non osano neppure accarezzare. Raggiunta quella frontiera, infatti, la poiana ascende con le ali tese, quasi galleggiando, mentre le cornacchie si sparpagliano. Tracciano cerchi di vittoria e ridiscendono lente, soddisfatte, alle loro pose quotidiane.
Questa è la regola, poiché nei cieli sopra la villa, nei prati intorno a Vallorgàna e nei boschi che impestano l’intera Val Fonda e che si arrampicano su per la Montagna, le cornacchie ormai non si contano. Esse, peraltro, sono sfrontate e prepotenti. Spadroneggiano. Transitano nel cielo in schiere numerose. Sfrecciano a bassa quota, rasenti ai prati o schivando gli spigoli delle case. Planano dove loro piaccia. Pascolano nei campi. Si allineano sugli steccati. Si lanciano richiami. Frugano sotto le siepi. Pongono sentinelle sui tetti e sugli alberi più alti. Sorvegliano il territorio, insomma, vendicando senza pietà ogni intromissione.
Pensai dunque, date le premesse, che la squisita indifferenza della poiana si fosse mutata quel giorno in un gesto di ribellione a tal punto clamoroso poiché anch’esse, le poiane, è evidente, dovevano essere stufe degli spadroneggiamenti delle cornacchie. Plausibile l’insubordinazione, mi dissi, ma una poiana che ghermisca in volo una cornacchia, che la scaraventi giù attraverso il vuoto, che la inchiodi al suolo e che infine la trascini via con sé resta comunque un fatto inusitato: mai visto e mai sentito raccontare.
Mi sembrò per questo che in un simile rarissimo evento potesse anche esservi qualcosa come una premonizione; ma naturalmente non vi diedi alcun peso. Presi su dalla legnaia una bracciata mista di stecchi e legna grossa, rientrai in villa, caricai il camino della cucina, ossia il più antico dei pur antichi camini della villa medesima, e attesi che la fiamma si facesse viva.
Ma come spesso accade nelle incerte settimane tra l’autunno e l’inverno, quel mio fuoco si rivelò fiacco, esitante. Nella bocca nera del camino non sorse il confortevole inferno domestico del pieno inverno. Palpitò invece un alito di melanconia.
Fu allora che sentii bussare al vetro di una finestra. E lì, dietro al vetro, c’era Nelso Tabióna. Mi guardava in silenzio, nel rispetto di un certo suo principio di discrezione. Egli ritiene infatti che sia giusto annunciarsi in questo modo. Arriva nella corte, spia attraverso le finestre del pianterreno, una ad una, con metodo, e quando infine gli riesca di scorgermi si ferma lì e aspetta in silenzio. Se mi accorgo, bene. Sennò, appunto, bussa con le nocche contro il vetro. Una volta, con i dovuti modi, dissi a Nelso che quel suo comportamento era forse un pelo contestabile. Se ne offese: non era affatto impertinenza, secondo lui, ma lodevole accortezza, discrezione segnatissima.
Nelso, e si dice a Vallorgàna che ciò sia naturale inclinazione di tutti i Tabióna, non è uomo che metta in conto di poter sbagliare o che dubiti di sé, del proprio pensiero o delle proprie azioni. Egli, di conseguenza, è propenso sia a grandi imprese sia a resoconti sensazionali delle stesse; e anche questo, in paese, viene riferito agli istinti caratteriali, ereditari, dei Tabióna. Nelso può dire di aver visto un cervo, ma sarà un cervo con le corna più grandi di ogni altro cervo esistente in questo mondo. Può aver tagliato un albero, ma sarà un albero così fuori misura che nessuno all’infuori di lui, che è il principe dei boscaioli, si sarebbe sognato di affrontare. Nelso può essere salito in Montagna, in jeep, senza bisogno di catene, con la neve che fiocca copiosa. Può aver effettuato una manovra, col rimorchio stracarico di legname, nello spazio in cui non si sarebbe girata una carriola.
Di fronte a un uomo così, che peraltro è la persona con cui ho, in paese, maggior confidenza e che ha dalla sua, non bastasse l’attitudine alle grandi imprese, un’età, come ama ribadire, per cui egli potrebbe anche essere mio padre, di fronte a un uomo così, dicevo, bisogna disporsi ad ascoltare e ad ammettere la propria insignificanza. Verissimo, ma bisogna al tempo stesso dargli prova di fermezza, decisione e praticità, poiché un uomo non fermo, non deciso, non pratico, nel sistema etico di Nelso, è la peggiore delle vergogne.
Perciò, quel giorno, dopo che bussò al vetro, gli feci cenno di entrare esibendo una certa qual imperiosa risolutezza. Nelso indicò gli scarponi sporchi, il berretto di lana, la giacca militare, la sigaretta in mano. Fece no con la testa. «Dentro!», gli dissi. E allora spense la sigaretta sulla suola degli scarponi, si mise il mozzicone in una tasca della giacca ed entrò.
Aveva negli occhi un che di scontroso, di stizzito. […] «Facciamola corta. Ti hanno fregato Duca. Su in Montagna, nei tuoi boschi. Ti hanno fregato».
[da Il Duca di Matteo Melchiorre, Einaudi, 2022]
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