Quando nel 2021 l’Accademia di Svezia ha attribuito il Nobel della Letteratura ad Abdulrazak Gurnah, la motivazione evidenziava come i libri dello scrittore e romanziere tanzaniano (oggi cittadino britannico) testimoniassero “la sua intransigente e profonda analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato tra culture e continenti.” Per capire in che modo le pagine di Gurnah svolgano questo severo approfondimento di uno spaccato di storia che ha visto e continua a vedere drammi di singoli e di interi popoli, si legga il romanzo “Sulla riva del mare” (2001), riedito ora da La Nave di Teseo con la traduzione di Alberto Cristofori (la casa editrice ha in corso la ripubblicazione dell’intera opera narrativa dell’autore). Sorprende innanzitutto come Gurnah conduca il suo racconto con un costante registro di media intensità, quasi cronachistico, così da regimare emozioni, contenere il rischio dell’autocommiserazione che può diventare persino compiacimento. Lo sforzo, dunque, è quello di una narrazione obiettiva, credibile a prescindere.
Nel romanzo si racconta la vicenda di Saleh Omar, un uomo ormai maturo, mercante di mobili di Zanzibar, che lascia la sua terra governata da personaggi corrotti, violenti, opportunisti (per undici anni è stato rinchiuso in campi di detenzione). Certo, non può dirsi un giovane che legittimamente aspira a un futuro di libertà e vita migliore, ma scegliere l’esilio diventa per lui istanza morale, è “una maniera poco costosa per dimostrare una ferma disapprovazione”, anche se in quella piccola isola di gente povera, pochi potrebbero permettersi un analogo viaggio. Perciò decide di rifugiare in Inghilterra. Già l’arrivo all’aeroporto londinese di Gatwick in veste di richiedente asilo è preludio ai molti sconvolgimenti (geografici, emotivi, psicologici, culturali) della sua condizione di rifugiato. Accade, infatti, che Saleh esibisca un visto non valido. Gli è stato rilasciato in patria da Rajab Shaaban Mahmud, un parente senza scrupoli, suo accanito avversario. Così come gli è stato consigliato, finge di non capire la lingua inglese e l’assistente sociale cui viene affidato deve ricorrere a qualcuno che parli il kiswahili, uno dei dialetti dell’Africa orientale. Il caso vuole che questo interprete sia il figlio di Rajab. Si chiama Latif Mahmud. Con la sua famiglia ha reciso ogni legame fin dagli anni Sessanta, da quando anche lui chiese asilo in Inghilterra come rifugiato; e non c’è stato giorno senza rimpianto della propria terra. D’ora in avanti Saleh e Latif si ritroveranno a vivere nella medesima località, una cittadina inglese sul mare. Un mare e un’esistenza quotidiana completamente diversi da quelli della loro isola: “Vivo in una piccola città sulla riva del mare, come ho sempre fatto, anche se ho trascorso la maggior parte della mia vita sulla riva di un caldo oceano verde, molto lontano da qui. Adesso vivo la mezza vita di uno straniero, spio nelle case attraverso lo schermo televisivo e immagino le continue paure che affliggono le persone che incontro durante le mie passeggiate.” Saleh e Latif sono accomunati dalle stesse radici e da un’identica sorte. Costretti a misurarsi ogni giorno con un’esistenza che è, giustappunto, “la mezza vita di uno straniero”. Perché l’altra mezza è “da un’altra parte”, è cosa passata. Difficile, però, a dirsi finita: “Ma so che la vecchia vita formicola e pulsa con volgare salute dietro di me e davanti a me. Ho il tempo sulle mani, sono nelle mani del tempo, per cui potrei anche render conto di me. Prima o poi ci tocca farlo.”
***
Sono un rifugiato, uno che cerca asilo. Queste non sono parole facili, anche se l’abitudine di sentirle le fa sembrare tali. Sono arrivato all’aeroporto di Gatwick nel tardo pomeriggio del 23 novembre dell’anno scorso. È una piccola emozione ben nota, nelle nostre storie, lasciare ciò che conosciamo e arrivare in posti strani, trascinando piccoli bagagli affastellati e nascondendo ambizioni segrete e represse. Per alcuni, come per me, è stato il primo volo e il primo arrivo in un luogo monumentale come un aeroporto, anche se ho viaggiato per terra e per mare, e con l’immaginazione. Camminavo adagio in quelle che mi sembravano gallerie freddamente illuminate, vuote e silenziose, anche se adesso, ripensandoci, so di aver superato file di sedili e grandi vetrate, cartelli e istruzioni. Gallerie, col buio in arrivo all’esterno, sferzato da una pioggia sottile, e la luce dentro che mi attirava. Ciò che sappiamo ci riporta continuamente alla nostra ignoranza, ci fa vedere il mondo come se fossimo ancora nella tiepida pozza che conoscevamo dai terrori infantili. Camminavo adagio, sorpreso a ogni ansiosa svolta che ci fosse un’indicazione in attesa di dirmi dove andare. Camminavo adagio, per non perdere una svolta o fraintendere un cartello, per non attirare troppo presto l’attenzione entrando in uno stato di confusione. Mi presero al banco dei passaporti. “Passaporto,” disse l’uomo dopo che ero rimasto in piedi davanti a lui un momento di troppo, aspettando che mi scoprissero, che mi arrestassero. La sua faccia sembrava decisa, anche se la vacuità del suo sguardo era volutamente inespressiva. Mi avevano detto di non dire niente, di fingere di non sapere neanche una parola di inglese. Non sapevo bene perché, ma sapevo che avrei fatto come mi avevano detto, perché il suggerimento sembrava astuto, suonava come uno dei trucchi noti a chi non aveva potere. Ti chiederanno il tuo nome e il nome di tuo padre e cos’hai fatto di buono nella vita: non dire niente. Quando ripeté Passaporto per la seconda volta glielo porsi, trasalendo in attesa di insulti e minacce. Ero abituato ad agenti che ti squadravano e ti urlavano contro al minimo errore, che ti prendevano in giro e ti umiliavano per il puro piacere di esibire la loro sacra autorità. Perciò aspettai che l’hamal dell’immigrazione dietro al suo piccolo podio notasse qualcosa, alzasse gli occhi lentamente e mi guardasse con il lampo di sicurezza con cui il fortunato guarda il supplice. Ma lui alzò gli occhi dal mio documento falso con negli occhi uno sguardo di gioia repressa, come un pescatore che abbia appena sentito uno strattone alla lenza. Niente visto di ingresso. Poi sollevò il telefono e parlò un momento. Sorridendo apertamente, adesso, mi chiese di aspettare di lato.
Rimasi in piedi con gli occhi bassi, così non vidi arrivare l’uomo che mi portò via per interrogarmi. Mi chiamò per nome e sorrise quando lo guardai, un sorriso amichevole che diceva con una certa sicurezza, Perché non viene con me così sistemiamo questo piccolo problema? Mentre camminava rapido davanti a me, vidi che era sovrappeso e sembrava malato e quando raggiungemmo la stanza dei colloqui respirava affannosamente e si strattonava la camicia. Si sedette su una sedia e subito si agitò a disagio e io pensai a lui come a una persona sudata, intrappolata in una forma che non le piaceva. Ebbi paura che il suo malessere lo indisponesse verso di me, ma poi sorrise di nuovo e parlò con voce bassa e gentile. Eravamo in una stanzina senza finestre e col pavimento duro, una scrivania fra di noi e una panca che correva lungo una parete. Era illuminata violentemente con dei neon che rendevano oppressive le pareti grigie che vedevo con la coda dell’occhio. Mi disse che si chiamava Kevin Edelman, indicando la targhetta che aveva sulla giacca. Che Dio ti conceda salute, Kevin Edelman. Sorrise di nuovo, sorrideva molto, forse perché malgrado i miei sforzi percepiva il mio nervosismo e voleva rassicurarmi, o forse nel suo lavoro era inevitabile che dovesse provare piacere al disagio di quelli che finivano di fronte a lui. Aveva davanti un blocco di carta gialla e ci scrisse su per un momento o due, segnando il nome del mio passaporto falso prima di parlarmi.
“Posso vedere il suo biglietto, per favore?”
Biglietto, oh sì.
“Vedo che ha dei bagagli,” disse puntando il dito. “Questo è il suo numero identificativo.”
Feci il sordo. Si può capire biglietto senza sapere l’inglese, ma numero identificativo mi sembrava complesso.
“Farò ritirare il suo bagaglio,” disse tenendo il biglietto di fianco al suo blocco. Poi sorrise di nuovo, interrompendosi per parlare ancora dell’argomento. Una faccia lunga, un po’ carnosa sulle tempie, soprattutto quando sorrideva.
Forse sorrideva solo perché pregustava il piacere di frugare nei miei bagagli e allo stesso tempo aveva la certezza che ciò che avrebbe visto gli avrebbe detto quello che voleva sapere, con o senza la mia collaborazione. Immagino che ci debba essere un certo piacere in questo esame, come guardare in una stanza prima che sia stata preparata per una visita, prima che la sua reale normalità sia stata trasformata in una sorta di esibizione. Immagino che ci debba essere un certo piacere anche nell’impadronirsi con sicurezza dei codici segreti che rivelano ciò che le persone tentano di nascondere, un’ermeneutica dei bagagli che è come seguire una traccia archeologica o esaminare le rotte su una mappa di navigazione. Io rimasi in silenzio, adeguando il mio respiro al suo, così da percepire l’avvicinarsi dell’arrabbiatura. Ragione per cui tenta di entrare nel Regno Unito? È un turista? In vacanza? Ha dei soldi? Ha del denaro, signore? Traveller’s cheques? Sterline? Dollari? Conosce qualcuno che possa garantire per lei? Nessun indirizzo? C’era qualcuno da cui sperava di andare durante la sua permanenza nel Regno Unito? Oh, dannazione. Ha familiari nel Regno Unito? Parla inglese, signore? Ho paura che i suoi documenti non siano in ordine, signore, e dovrò rifiutarle il visto di ingresso. A meno che lei non possa dirmi qualcosa sulla sua situazione. Ha qualche documento che possa aiutarmi a capire la sua situazione? Documenti, ha qualche documento?
[da Sulla riva del mare di Abdulrazak Gurnah, trad. di Alberto Cristofori, La nave di Teseo, 2021]
Torna Indietro