Quando gettiamo nel cestino la confezione vuota dei biscotti, non pensiamo che dietro di essa ci sono mesi di lavoro: ci sono un ufficio marketing e un ufficio stile di un’azienda che hanno lavorato alla sua realizzazione, soprattutto c’è un designer che l’ha progettata esattamente come avviene per una caffettiera, per una poltrona, per una cucina o per l’arredamento di un’intera casa. Chi è un designer e come si fa a diventarlo? Come pensa un professionista del disegno industriale? Dove trova la sua ispirazione e come si caratterizza il suo mondo professionale? Biagio Cisotti è architetto, designer e docente di Industrial design all’ISIA di Firenze: gli abbiamo posto qualche domanda per approfondire i temi legati a questo mondo tanto affascinante quanto poco conosciuto.
Come hai cominciato a lavorare nel settore del design?
Ho fatto Architettura e fin da allora il mondo del design mi interessava molto. All’epoca, all’interno del percorso di studi, c’erano due corsi dedicati al design: quello di Remo Buti, architetto che si dedicava in particolare al design dello spazio, dell’allestimento e dell’arredamento di interni, e quello di Roberto Segoni, architetto che faceva industrial design. Pur avendo seguito per lo più Buti, per la tesi decisi di dedicarmi a un progetto di rottura, diverso da quanto avessi fatto fino ad allora. Così mi laureai con Segoni e progettai un camion. Il mio lavoro piacque e venne pubblicato da Ottagono, una rivista molto nota nell’ambito del design. Fu il proprietario di Poltronova, Sergio Cammilli a notare sulle pagine del magazine il mio progetto e a rivolgersi al prof. Segoni per contattarmi: mi voleva come progettista nella sua azienda. Ricordo che Cammilli venne a visitare la mostra che avevo organizzato sul mio progetto di tesi e poi mi propose di restare in Poltronova. L’idea inizialmente non mi entusiasmava: avrei voluto tentare altre vie, ma decisi di accettare perché avevo bisogno di lavorare. In quegli anni mi mantenevo come potevo, facevo il fotografo e l’illustratore freelance per Giunti, ma era un lavoro discontinuo e la possibilità di ottenere un posto fisso mi allettava non poco. Chiesi e ottenni di lavorare fino al giovedì, riuscendo il venerdì a tenermi libero per incarichi come designer da parte di altri committenti. In Poltronova, rimasi vent’anni: entrai come responsabile dell’ufficio tecnico e nell’arco della mia carriera nell’azienda divenni Art director. Ho avuto così la possibilità di collaborare con alcuni tra i più grandi nomi del design contemporaneo: Sottsass, Mendini, Mari, Mangiarotti, Portoghesi, Michelucci, Lella e Massimo Vignelli.
In cosa consiste il tuo corso di Industrial design?
Io insegno all’ultimo anno del triennio in Design del prodotto. Il mio corso di progettazione è quindi l’ultimo del percorso didattico di design che viene svolto in ISIA Firenze e che vede al primo anno il corso di Basic design del direttore e prof. Fumelli e al secondo anno quelli dei docenti Santachiara e Ferriani. Durante le mie lezioni, gli allievi vengono in contatto con l’industria e dunque il tema del design e della progettazione viene affrontato sotto ogni aspetto, a 360°, svolgendo una ricerca applicata alla produzione industriale e legata a quanto le aziende stesse ci richiedono. Nello specifico, abbiamo ormai un consolidato rapporto con l’azienda Ariete, produttrice di elettrodomestici: ogni anno, l’ufficio marketing di Ariete svolge delle indagini di mercato e ci affida un tema che sviluppiamo all’interno del corso. I ragazzi vanno in azienda, si confrontano con i responsabili dell’ufficio stile, dell’ufficio ingegnerizzazione e dell’ufficio marketing e si comportano esattamente come accadrebbe nel mondo del lavoro, ottenendo un riscontro autentico di come le proprie idee possano trovare applicazione nella progettazione e nell’eventuale messa in produzione. Ovviamente il nostro corso cerca di andare oltre la produzione attuale dell’azienda e di indagare possibilità che probabilmente solo nel futuro troveranno spazio sul mercato: viene dato insomma ampio spazio alla ricerca, alla sperimentazione, allo studio di tecnologie avanzate e, inutile dirlo, alla creatività. Negli anni, abbiamo realizzato progetti bellissimi e di ogni tipo: stampanti 3d di cibo, ferri da stiro a induzione e molte altre tipologie di elettrodomestici che oggi rappresenterebbero dei costi eccessivi di produzione e di utilizzo, ma un giorno non molto lontano diventeranno parte della nostra quotidianità.
Spesso si tende a confondere lo styling con il design: che differenza c'è?
Diciamo che il design viene considerato un termine nobile per raccontare il processo produttivo di un oggetto che, oltre a essere bello, dovrebbe avere una funzionalità che potesse migliorare il livello di vita delle persone. Lo styling è invece un termine percepito in modo negativo perché indica il solo apporto della forma, senza dare importanza per la funzionalità, il concept, l’uso. In realtà, oggi entrambi i termini tendono ad aver perso il loro confine semantico, nel senso che spesso le due parole divengono interscambiabili. Del resto, oggi il design è dappertutto, perché dietro a qualunque oggetto c’è un pensiero progettuale. Un tempo, non era così: infatti, il design nasce per identificare un nuovo modo di pensare il processo produttivo che prima dell’avvento dell’industria non c’era. Nello spazio tra l’artigianato e l’industria, si colloca il design. Va detto che questo tipo di processo che prevede la progettazione e la realizzazione da parte di terzi è sempre un po’ esistito: anche artisti e architetti rinascimentali fornivano il disegno per mobili di sagrestie e biblioteche poi realizzate da maestri legnaioli. Nello stesso senso, nel mondo dell’industria c’è sempre stato l’ufficio stile, così come nella moda stile e design sono ormai pilastri irrinunciabili ma ben distinti dal processo di realizzazione pratica e nel Made in Italy, pensando a un grande marchio come Ferrari, sarebbe difficile immaginare i modelli delle auto senza la mano di un designer che potesse concepirne la linea.
Quali caratteristiche deve avere un buon designer?
Citando Achille Castiglioni, il designer è un mestiere da curiosi. Di cosa? Bisogna essere curiosi di tutto: del mondo, della vita, delle idee. Occorre essere curiosi per poter restituire un prodotto che abbia un senso. Lo dico sempre ai miei studenti: noi designer siamo i più grandi progettisti di spazzatura, perché dietro ogni oggetto, imballaggio o confezione gettati quotidianamente all’interno di un bidone dell’immondizia c’è il progetto di un designer. Il design richiede quindi una grande consapevolezza nell’utilizzo dei materiali, un’approfondita conoscenza delle tecniche di produzione, un’attenzione particolare verso gli usi e i costumi della nostra società. È un mestiere di grande evoluzione e non c’è una scuola che ti possa insegnare nella concretezza quello che occorre sapere, perché ciò che vale oggi per la produzione di un oggetto non è applicabile a tutti gli oggetti e soprattutto non varrà domani. All’università occorre apprendere un metodo di lavoro, di studio, di ricerca, ma a renderci competitivi al lavoro sarà la nostra curiosità. Noi tutti siamo legati alle necessità dell’industria, alla trasformazione della materia. Soprattutto, dobbiamo essere assolutamente interessati a cercare di capire come sono fatti gli oggetti che usiamo ogni giorno, a porci domande, a osservare il funzionamento, la forma e lo stile di tutto ciò che ci colpisce e che ci capita sotto mano. Noi dobbiamo essere, come diceva Andrea Brandi, dei veri e propri sismografi, pronti a rilevare e percepire tutti i movimenti tellurici, ossia tutto quello che di nuovo avviene sul nostro Pianeta e nella realtà in cui viviamo. La differenza che passa tra uno scrittore e un designer è questa: lo scrittore per comunicare e trasmettere il proprio messaggio ha bisogno di usare la lingua scritta; noi per raccontare la nostra poetica abbiamo bisogno della materia: la tecnologia a noi serve per esprimere il nostro pensiero.
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