Il caso Kaufmann. Un amore al tempo oscuro del nazismo

Luigi Oliveto

21/03/2019

Esistono tante, troppe storie che dimostrano quale cosa cupa, atroce, assurda sia stato il nazismo. In quei tempi bui, tra le molte, fu una triste vicenda anche quella di Lehmann Katzenberger e Irene Seiler, cui Giovanni Grasso si è ispirato per il suo romanzo “Il caso Kaufmann”. Nella finzione letteraria i protagonisti hanno mantenuto il loro nome (non il cognome). Siamo a Norimberga nel dicembre del 1933. Lehmann Kaufmann è un ebreo sessantenne, commerciante, vedovo, presidente della comunità ebraica, il quale all’inizio sottovaluta quanto stia accadendo nella Germania di Hitler. Riceve una lettera dell’amico Kurt che gli annuncia l’arrivo a Norimberga della figlia Irene e gli chiede di poter aiutare la ragazza a sistemarsi in città. E così farà. Irene ha vent’anni, è bella, di forte personalità. La sua presenza riaccende in Leo una ragione di vita. Tra i due nasce subito un’intesa affettiva e intellettuale che diverrà problema quando subentrerà pure il desiderio. Si palesa, infatti, un doppio scandalo: la differenza d’età tra il vedovo e la ragazza; e – circostanza ancora più intollerabile – il fatto che lei sia ariana, amante di un ebreo, ovvero appartenente a un popolo nemico della Germania. Trattasi, dunque, di “inquinamento razziale”. Perseguibile dai pettegolezzi della gente, dalla delazione, infine dalla Giustizia esercitata dallo spietato giudice Rothenberger. Ecco così svolgersi una tenera, drammatica storia d’amore mentre tutt’attorno monta la follia collettiva che precipitò l’umanità nel fondo più oscuro e atroce della disumanità. Quasi a dire che l’amore vince sul male, anche quando ne risulti sconfitto dalla morte.
 
***
 
Norimberga, 1965
«Se sono pentita? Francamente, non capisco di che cosa dovrei essere pentita… negli anni scorsi ci ho pensato spesso all’intera faccenda, al caso, come lo chiama lei. Ma non ho mai avuto pentimenti. Però, ecco, sì, questo posso dirlo: mi è sempre dispiaciuto per il vecchio. Era una brava persona, non era uno sporcaccione, o almeno, prima non lo era mai stato. Mai una lamentela da parte di una cameriera, di una governante, di una sua commessa. Sa, era ricco, e dopo la morte della moglie, si poteva pensare che… Insomma, lei mi capisce, un uomo solo può avere le sue esigenze. E invece, niente di niente. Se avesse avuto qualche tresca, diciamo così, me ne sarei accorta subito. E poi, un giorno arriva quella lì, con la sua faccia da santarellina (sono le peggiori). Lo provocava in continuazione. Figurarsi, un vecchio, a quell’età, dopo tanti anni di vedovanza, con quel po’ po’ di ragazza bionda, una gattamorta che gli scodinzolava sempre intorno. Che sfacciata! E il tono che si dava? Se ci ripenso… No, dicevo, il vecchio mi ha fatto pena, sin dall’inizio. Si capiva che aveva perso la testa. Nel quartiere volevano, sì, vabbè, insomma, volevamo dare una lezione a tutti e due. Certo, nessuno poteva immaginare che sarebbe finita così. L’ho sognato tante volte il signor Leo, sa? Mi vengono ancora i brividi. Lei penserà che sono i rimorsi di coscienza. No, non è così. O almeno, non credo… A noi sembrava solo giusto dare a quei due una lezione di decenza: la cosa era troppo sfacciata. Lei non può capire, è così giovane: oggi i giovani si baciano per le strade, si danno al libero amore, si drogano e nessuno reagisce. Sono i tempi, vero? Ebbene: anche quelli erano i tempi, quei due erano scandalosi, facevano una cosa disdicevole sotto molti punti di vista. E per di più contro la legge. Se erano leggi ingiuste, io non lo so. Di certo non le ho fatte io. Le leggi, caro signore, le fanno i potenti: e noi poveracci, che sgobbiamo tutto il giorno, non possiamo far niente, se non ubbidire. Lo diceva sempre anche il signor Leo, la legge è la legge. Oggi c’è la democrazia, sono arrivati i democratici e noi poveracci di conseguenza siamo diventati democratici. Ma non lo abbiamo deciso noi, lo siamo e basta. Sono i tempi. Ieri era diverso, comandavano i nazisti e tutti erano nazisti, ma per noi non cambiava granché. A quei tempi, quando tutti eravamo nazisti, dire “democratico” a qualcuno era un insulto, peggio che dirgli “ladro” o “mascalzone” o “carogna”. Oggi, che tutti sono democratici, dire “nazista” è diventato peggio che dire “assassino”. È la politica, beato chi la capisce. La povera gente si adatta, anche senza capire. Non so se mi spiego: in quegli anni facevo la portinaia, mi spezzavo la schiena su e giù per le scale, buongiorno e buonasera, guadagnavo poco, me lo facevo bastare. Poi è arrivata la guerra, la fame nera, i bombardamenti, gli americani, i russi e la democrazia (ma non per tutti: mia cugina vive a Berlino Est e non se la passa affatto bene). Risultato? Sono più vecchia, più stanca e più sola di prima, la pensione non mi basta e per sbarcare il lunario devo lavorare qui fino a tardi e lavare centinaia e centinaia di boccali di birra. Non mi lamentavo prima, non mi lamento neanche oggi. Io, caro signore, ho la coscienza a posto, ho fatto il mio dovere, ho rispettato le leggi. Capirei se l’avessi fatto per soldi, per interesse, allora sì che sarebbe stato grave. Invece io da questa storia non ci ho guadagnato nulla, anzi! Anche se qualcuno ha avuto il coraggio di insinuare… ma lasciamo perdere, è acqua passata: delle malelingue ha già fatto giustizia il Padreterno, sono morte tutte. Era scandaloso, bisognava pure che finisse, tutto il quartiere sapeva. Per noi era, in un certo senso, un dovere, secondo la morale dei tempi. Io, poi, quando mi hanno chiamata – due volte, prima alla polizia, poi in tribunale, se ci ripenso… che paura! – non ho mai detto niente di falso, non mi sono inventata niente. Sì, è possibile che qualcun altro un po’ di farina in più del suo sacco ce l’ha messa. Io no, quello che avevo visto l’ho detto, ma quello che non avevo visto, anche se lo sapevo, non l’ho mica raccontato. No, le ripeto: dispiacere sì, ma i rimorsi no, sono un’altra cosa. E poi, mi dia retta, se non lo facevamo noi, lo avrebbero fatto altri, e noi, allora, cosa avremmo detto alla polizia? Che eravamo diventati ciechi, sordi e perfino tonti? Ma se lo sapevano pure i muri! Lei lo sa quali rischi potevamo correre? Ci potevano arrestare tutti e a quei tempi mica era come oggi che arrestano un assassino e torna subito in libertà dopo due o tre giorni. Si avvicini, le voglio raccontare una cosa. In un palazzo vicino al nostro dove andavo a fare le pulizie, al secondo piano, c’era una famiglia di ebrei, tutte brave persone, tranquille, oneste, marito e moglie, due figlie. Lui era dottore, medico intendo dire. I pazienti poveri, che non avevano i soldi per pagare, li curava lo stesso, non importa se cristiani o giudei. Poi arrivarono le leggi e il dottore non poteva più curare i cristiani e, dopo qualche tempo, neanche più gli ebrei. Facevano la fame, qualcuno dei vecchi pazienti ogni tanto si ricordava di loro, mandando a suo rischio e pericolo qualche marco o un pezzo di pane o di carne. Poi, un giorno, li hanno presi tutti, li hanno messi su un treno e non sono più tornati. A noi dicevano che li trasferivano all’Est, in uno Stato solo per loro. A me non davano nessun fastidio, mi erano perfino simpatici, ma ci dicevano che gli ebrei avrebbero inquinato la razza, che erano i nemici dei tedeschi, che era per colpa loro che c’era la guerra. E noi ci credevamo. Dopo la guerra ho saputo che sono morti tutti, il dottore, la moglie, anche le bambine, nelle camere a gas, nei forni crematori. Quello che gli facevano nei campi, io l’ho visto al cinematografo: sa quando fanno quei cinegiornali prima che inizia il film? Qualcuno, dietro di me, diceva che era un documentario fatto dagli americani e dai comunisti, per infangare l’onore della Germania. Io di politica non m’intendo, ma i cadaveri li ho visti, al cinema, con i miei occhi. E poi gli americani non erano contro i comunisti? Che le devo dire? Oggi, del dottore, della sua famigliola, nessuno si ricorda più. Mentre tutti parlano del signor Leo. Quelli lì, il dottore e la sua famiglia intendo, erano brave persone, non avevano fatto mai nulla contro la legge. Se vuole saperlo, io non sono razzista, non sono mai stata contro gli ebrei, se si comportano bene… Che le stavo dicendo, ho perso il filo… Ah, ecco, sì, ma venga più vicino, le confiderò una cosa che ho sempre pensato ma non ho mai detto a nessuno: denuncia o non denuncia, signorina Irene o non signorina Irene, il signor Leo era ebreo, e un ebreo a quei tempi una brutta fine, prima o poi, l’avrebbe fatta comunque.»
 
[da Il caso Kaufmann di Giovanni Grasso, Rizzoli, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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