Il calamaro gigante esiste e va guardato negli occhi

Luigi Oliveto

29/07/2021

Lasciamoci convincere: il calamaro gigante esiste. Crediamoci. E guardandolo in quei due occhioni grandi come ruote di un TIR, anche i nostri, assai piccoli, si apriranno a dimensioni che ignoravamo. Non più ‘vedute’ (che poi sono solo ciò che vogliamo vedere) ma ‘visioni’ spalancate sull’inconosciuto. Certo. All’inizio ci sentiremo persi. Ma di lì a poco avvertiremo quanto stupenda sia la consapevolezza di esistere (coesistere) in una dimensione assai più vasta del tutto-qui e tutto-ora, che – da stupidini egotici e presuntuosi – crediamo essere ‘la’ vita. C’è questa morale dietro il romanzo di Fabio Genovesi “Il calamaro gigante” (Feltrinelli). Il libro inizia avvertendo: “Del mare non sappiamo nulla. Nulla di nulla, eppure il mare è quasi tutto. All’inizio c’era solo lui, poi ha concesso un po’ di spazio secco e polveroso alla terraferma, e noi subito superbi a dire che il centro del mondo è New York o Pechino, come una volta Babilonia, Atene, Roma, Parigi… invece il centro del mondo è il mare. Occupa i tre quarti del pianeta, che noi chiamiamo Terra, ma se fossimo onesti dovremmo chiamarlo Acqua”. È vero. Dell’universo non sappiamo quasi nulla di nulla, perciò ci affrettiamo a inventariare la nostra ignoranza alle voci ‘impossibile’, ‘assurdo’. Come nel caso del calamaro gigante che con i suoi tentacoli avvinghiò la Alecton del capitano Bouyer in navigazione verso la Guyana (allucinazioni di marinai con troppa acqua attorno e troppa acquavite in corpo?). Ma talvolta andrebbe preso in considerazione anche l’incredibile, per come esso possa allargare gli orizzonti (è all’orizzonte che il calamaro gigante si palesò all’incredulo cannocchiale del capitano), alimentare i sogni, svelare zone inesplorate della conoscenza. Nelle pagine di Genovesi, a offrire questa riconsiderazione del possibile sono la Natura e certi personaggi altrettanto insondabili: esploratori ostinati, scienziati bislacchi, una nonna che parla abitualmente col marito morto, una ragazzina che smette di camminare per non pestare le formiche. Il libro è una grande, toccante parabola sulla salvezza del pianeta messo in pericolo da un ottuso antropocentrismo. Non di meno è un test (pure divertente) sul nostro livello di intelligenza che cresce ogni qualvolta impugniamo il cannocchiale del capitano Bouyer, scrutiamo orizzonti, ci misuriamo con paradossi, diversità, paure, conoscenze: per capire, e magari anche per amare.
 
***
 
Eppure la Alecton adesso è qui ferma in mezzo all’oceano. Perché più forte del vento è il grido della vedetta, che ha avvistato qualcosa.
Una nave nemica, un relitto mezzo sommerso, cos’è che vede dalla cima dell’albero maestro? Glielo chiede pure il capitano Bouyer, ma per un po’ si sente solo il vento, che aumenta la sua forza come un amico che vuole portarti via da una brutta situazione. Poi la risposta della vedetta, l’unica possibile:
“È… è enorme”.
Il capitano prende il cannocchiale e ci strizza l’occhio dentro, guarda la calma dell’oceano di qua e di là, di qua e di là, e non vede niente. Ma resta immobile più della sua nave, quando capisce che la cosa che sta cercando all’orizzonte è proprio l’orizzonte intero. Smisurata e scura, affiora e sparisce, affiora e sparisce.
Bouyer aveva un programma semplice, arrivare nella Guyana francese liscio e senza ritardi, farsi notare dai superiori e scalare un altro gradino nella carriera militare. Però c’è questa cosa là davanti, anzi non è davanti, è ovunque, e lo chiama. Allora raccoglie il poco fiato rimasto e dà il suo ordine: cambiare rotta e accostarsi alla Cosa.
E così, lasciando la rotta programmata, la Alecton entra nella storia.
[…]
“Cosa vede, capitano?” gli domandano, ma Bouyer non risponde. Solo tiene il cannocchiale fisso sulla Cosa. Che fa paura a lui come ai sessantasei uomini dell’equipaggio. Ma appunto sono uomini, e gli uomini devono comprendere, devono prendere. Allora con gli occhi spalancati vanno incontro al mistero. Però sono pure militari, quindi nell’avvicinarsi lo ricoprono di cannonate.
A ogni colpo la Cosa sparisce, poi spunta di nuovo a riempire lo sguardo, molle e rossiccia, senza un sopra e un sotto, senza un riferimento per accostarla. Inafferrabile come i sogni, incomprensibile come i sogni. Scompare un attimo e torna davanti a te, un po’ più in qua o in là.
Ma sempre più vicina.
Troppo vicina ormai per i cannoni, allora Bouyer comanda di passare ai fucili.
E se le cannonate non fanno nulla, non ha molto senso provare con le fucilate. Ma il senso è un discorso che la Alecton si è lasciata dietro quando ha deciso di abbandonare la sua rotta.
Filava verso la Guyana e l’Isola del Diavolo, dove la Francia spediva i condannati ai lavori forzati nelle carceri più infernali del mondo. Delitto e castigo, azione e reazione, ingranaggi precisi e solidi che portano avanti la società, ogni cosa diversa e non conforme è un granello che ci cade in mezzo, si frantuma e vola via come polvere senza esistere più.
E nemmeno la Cosa dovrebbe esistere. Girano mille racconti di mostri a più teste, granchi grossi come isole, serpenti marini che con un morso spezzano le navi in due. Per gli scienziati sono fantasie da marinai, che passano troppo tempo a fissare l’acqua e a mischiarla col whisky. E gli uomini della Alecton non sono scienziati, loro appunto sono marinai, ma questa cosa non è una fantasia.
Sta lì davanti e si mangia tutte le munizioni, ogni loro respiro, i battiti impazziti del cuore e gli ingranaggi precisi e solidi della realtà.
E forse adesso si mangerà anche la nave, è così vicina che la tocca, le è addosso, tutta intorno. Gli uomini corrono a poppa e a prua, e ovunque la vedono che striscia e stringe lo scafo. Allora sparano, sparano a caso, sparano senza mira.
E senza mira sperano.
 
[da Il calamaro gigante di Fabio Genovesi, Feltrinelli, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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