I titoli di coda di una vita insieme. Anche un amore che finisce pretende una sua unicità

Luigi Oliveto

02/10/2024

Chissà quante persone al mondo, in questo istante, stanno dicendo di amarsi: con le stesse parole, medesime pulsioni, uguali sentimenti. Eppure l’amore sa farsi credere esclusivo. Cosicché, anche quando finisce, se ne pretende l’unicità. Ed è giusto così. Questo accade a Fosco e Alice, protagonisti dell’ultimo romanzo di Diego De Silva, “I titoli di coda di una vita insieme” (Einaudi). La loro vita di coppia non ha più ragion d’essere. Nulla è successo di dirompente, nessun fattore esterno che possa averne minato l’unione. Semplicemente si è prosciugata: “Io vorrei isolare il momento in cui ho visto la crepa e ho preso atto della fine, ma non lo trovo, perché non c'è. L'amore è discreto nel morire, non si lamenta e non fa scenate, non c'informa quando si ammala. Siamo noi a risponderne, e tutto quello che gli capita è colpa nostra.” I due (lui scrittore, lei oncologa), giorno dopo giorno, sono come scivolati via l’uno dall’altra. Accanto nella quotidianità, ma ormai distanti. Sono giunti, così, alle pratiche legali della separazione. Tornano a parlare di loro e tra loro, ma solo perché divergono sul come lasciarsi. Fosco vorrebbe procedere con una tranquilla, magari un po’ malinconica, presa d’atto. Alice no; se non altro per farsi una ragione di quel fallimento, vuole la drammatizzazione, le concitate parole, le recriminazioni. Del resto, avverte l’autore, “l’amore non è una storia, ma due”. Almeno su una cosa concordano: su come le parole adoperate dai rispettivi avvocati siano inadeguate, avvilenti, se rapportate a ciò che è stato il loro rapporto, il bene reciproco, gli anni trascorsi insieme. Decidono così di ritirarsi nella vecchia casa di campagna della famiglia di lui, per scrivere un ricorso di separazione consensuale, che – innanzitutto a sé stessi – sappia dire con le parole giuste come si sono amati, cosa, insieme, hanno sperato, condiviso, sbagliato. E’ umiliante che la fine di un amore debba essere sentenziata da un tribunale. In tal caso gli unici giudici legittimi sono i giudicati. Solo loro sanno quanto sia elaborato e sofferto giungere all’epilogo. Quanto lentamente debbano scorrere quei titoli di coda affinché tutto ciò che li ha preceduti possa diventare consapevolezza, rimpianto, accoglienza dell’altro proprio adesso che l’altro sta per essere perduto. Folgorante, a questo proposito, è l’incipit del romanzo: “Alice e io ci vogliamo bene. Per questo ci stiamo lasciando”. De Silva, con la giusta distanza che lo fa essere, al contempo, partecipe ed arbitro, ci consegna un’ordinaria storia di coppia, che però, nel suo racconto, si fa raro scandaglio di sentimenti, psicologia, fragilità, tenere codardie. Forse per dire che ogni storia d’amore, in ragione di ciò che è stata e di ciò che lascia, non potrà mai dirsi del tutto finita.
 
***
 
Alice e io ci vogliamo bene. Per questo ci stiamo lasciando. Lo so, è un paradosso, ma è così che finiscono i matrimoni. Per quanto illogico sembri, sono i difetti che tengono in vita le coppie. Gli atteggiamenti che irritano, i momenti in cui diventi bersaglio di provocazioni improvvise, sfrontate, figlie di piccoli rancori mai superati se non dagli anni (che passano ma non risolvono), rancori prescritti e dunque inesigibili che ancora bruciano; le frasi che non vorresti più sentire (quante volte le hai chiesto di non ripeterle?), le abitudini moleste, le dimenticanze, gli intercalari sbagliati che sei stanco di riprendere. Sono queste le cose che contano.
Quando questa matassa nevrotica si scioglie, quando regna la calma e tra le pareti ristagna quella pace insapore, esangue, inoffensiva, duratura, che ha un odore (lo senti nelle narici appena rientri a casa, impregna i mobili, è una condensa); quando niente più ti disturba perché niente più ti tocca, e non c’è più fastidio reciproco, tu qui, lei pure, e siete gentili l’uno con l’altra, finanche premurosi a volte, è allora che è finita.
Io non saprei dire quand’è successo. È un mio vecchio difetto quello di cercare una scaturigine degli eventi, come volessi credere che c’è sempre qualcuno o qualcosa a cui dare la colpa, benché sappia (gli anni me l’hanno dimostrato tante volte) che niente è ascrivibile a una sola causa e nulla di ciò che conta davvero si spiega; eppure mi rassicurerebbe individuare un momento preciso, un trauma, uno strappo, una parola fuori posto non particolarmente eloquente ma in grado di accendere una luce sull’irreparabilità delle cose.
Ci sono parole (a volte dei semplici avverbi) che hanno un basso livello di offensività eppure allertano, denunciano, ci consegnano l’evidenza di una fine avvenuta. Sono come soffiate che arrivano sottobanco nel pieno di una contrattazione, la interrompono e la invalidano (mi è successo, una volta, di veder saltare una trattativa al momento del rogito perché il notaio aveva rilevato un vizio nella documentazione dell’immobile che stavo per comprare: ancora ricordo lo sgomento sul viso del venditore e dell’agente immobiliare che lo scortava: Ma come, proprio adesso, sul più bello, e i progetti che avevo, i soldi già impegnati, la promessa che non potrò più mantenere, in un attimo è saltato tutto, cosa dirò a casa, cosa racconterò a chi confidava nella mia solvibilità, questa compravendita che avevo tanto aspettato era un bluff, un fuoco di paglia, sono punto e a capo, domani ricomincerà il viavai di possibili acquirenti e chissà quanto durerà, intanto mi toccherà restituire la caparra).
Io vorrei isolare il momento in cui ho visto la crepa e ho preso atto della fine, ma non lo trovo, perché non c’è. L’amore è discreto nel morire, non si lamenta e non fa scenate, non c’informa quando si ammala. Siamo noi a risponderne, e tutto quello che gli capita è colpa nostra. Ma non siamo all’altezza di questa responsabilità, anche se in buona fede affermiamo di assumercela. Allora, molto semplicemente, non facciamo nulla. Ci affidiamo al silenzio. Gli diamo il compito di sfinirci e di logorare la convivenza finché uno dei due non s’incarica di ufficializzare la fine, e le dà vita, la annuncia, propone tempi e modalità. Da quel momento il tempo si dilata e si fa esperienza della peggiore estraneità: quella fra due persone che non si spiegano come abbiano fatto a vivere per tanti anni con qualcuno con cui non hanno più niente da dirsi. Di cosa parlavano prima, di cosa era fatta la loro unione e perché ci hanno messo così tanto a pronunciare la parola che li ha tirati fuori dalla gabbia al solo suono di cinque sillabe? È impressionante la rapidità con cui le parole taciute a lungo disintegrano (letteralmente: tolgono integrità) assetti e convenzioni considerati immodificabili, smentendo il luogo comune che attribuisce all’abitudine il potere di resistere al tempo e all’infelicità: no, l’abitudine non ha altra forza che la nostra omertà, il potere che le conferiamo tacendo; l’abitudine è un segreto di Pulcinella, è il tappeto sotto cui nascondiamo la polvere dei rapporti finiti, basta semplicemente sollevarlo, con intenzione o per inciampo (il più delle volte è inciampando che si smuovono le cose).
Io non so se Alice è inciampata, non ero con lei quand’è successo. Ma mi è bastato sentirla aprire la porta di casa per capire che aveva passato il limite. Ero nello studio, fuori pioveva, lei era uscita e quasi subito rientrata per recuperare l’ombrello, perciò doveva essere successo per le scale: un’illuminazione, una consapevolezza fulminea che l’aveva spinta a girare i tacchi (come certi litiganti che sembrano aver rinunciato allo scontro, si allontanano dall’epicentro della rissa e poi all’improvviso tornano alla carica più rabbiosi di prima), o una decisione trattenuta a lungo e finalmente esplosa. Sapevo esattamente cosa stava per dirmi, le brutte notizie, anche quelle che non ti colgono di sorpresa, sono sempre anticipate da una tensione dei corpi che altera il senso dello spazio, così ho finto di non sentirla e ho stretto gli occhi sulle righe del romanzo a cui stavo lavorando, sperando che cambiasse idea.
La sua voce mi ha colpito al fianco come una scheggia.
«Mi ascolti un attimo, per favore?»
«Dimmi», ho risposto voltandomi verso di lei e togliendomi gli occhiali da lettura.
 
[da I titoli di coda di una vita insieme di Diego De Silva, Einaudi, 2024]
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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