I ragazzi e il turpiloquio. L’uso delle parolacce nella comunicazione parlata

Francesco Ricci

05/12/2016

L’espressione oscena, l’espressione volgare, l’espressione colorita appartengono al linguaggio non meno delle parole che comunicano cortesia, eleganza, gentilezza, rispetto. Ciascun parlante, infatti, dispone di una molteplicità di registri linguistici, che varia e impiega in base principalmente ai contenuti del discorso affrontato, all’interlocutore che ha davanti, al contesto situazionale. Il fascino di un romanzo come il “Satyricon” di Petronio risiede, tra le altre cose, proprio nel sapientissimo mescolarsi di codici linguistici differenti: il sermo familiaris, il sermo doctus, il sermo plebeius (ricco di volgarismi, solecismi, grecismi, sgrammaticature). E ciascuno di questi si adatta alla perfezione e realisticamente a quelli che sono gli stati d’animo, l’educazione, l’indole dei personaggi, come testimonia il celebre episodio della Cena Trimalchionis.

La comunicazione “parlata”, che costituisce assieme a quella “scritta” la forma tradizionale di comunicazione (quella “trasmessa” è più recente), nei giovani di questo inizio millennio si caratterizza sempre più per il costante ricorso alla parolaccia e all’imprecazione. Da questo punto di vista, viaggiare su un mezzo pubblico o passeggiare per le vie cittadine, circondati da studenti di scuola media (inferiore e superiore) e da universitari, equivale molte volte a immergersi nel turpiloquio (dal latino “turpiloquium”, termine che compare per la prima volta negli scrittori cristiani del II-III secolo). E ciò che, però, colpisce maggiormente non è la semplice immissione, quantitativamente rilevante, nella lingua d’uso di alcune espressioni colorite; piuttosto, è il fatto che queste ultime si segnalano per la loro assoluta gratuità, che prescinde completamente da “cosa” si dice e “a chi” si dice, oltre che per l’inerire ormai in maniera quasi esclusiva all’area semantica della genitalità maschile. E come trovo insopportabile chi mantiene mondo ed edulcorato il proprio modo di esprimersi anche quando tutto, ma proprio tutto, parrebbe richiedere uno sfogo acre, così trovo fastidioso chi impiega una o due parole per esternare ogni sentimento e ogni emozione. È ciò che fanno, in larga misura, i nostri giovani, a prescindere spesso dal tipo di studi intrapresi, dalla classe sociale di appartenenza, dall’ambiente familiare nel quale crescono.

Ma quali possono essere le ragioni di questo fenomeno, di cui, a livello letterario, già Pier Vittorio Tondelli, Niccolò Ammanniti, Aldo Nove, Enrico Brizzi, avevano dato conto, cogliendone l’incidenza? Ritengo che, al di là del desiderio per alcuni di atteggiarsi a grandi e di imporsi al cospetto dei propri coetanei (questo, infatti, vale per i dodicenni, per i tredicenni), le spiegazioni siano fondamentalmente due, strettamente intrecciate tra di loro. La prima rimanda all’impoverimento linguistico dei nostri ragazzi, di cui già parlava qualche anno addietro Umberto Galimberti, nel corso di una lunga intervista rilasciata a Marco Alloni: “A quell’epoca (nel 1976) uno studente ginnasiale conosceva millecinquecento parole, mentre vent’anni dopo, nel 1996, ne conosceva appena seicentoquaranta. Oggi, secondo me, ne conoscono ancora di meno”. Una riduzione del linguaggio, questa, che comporta come conseguenza immediata che i termini acquistino un senso figurato, non vengano usati i sinonimi (che non si conoscono), si faccia un largo impiego delle ripetizioni. La seconda ragione, invece, riposa nella cultura eminentemente visiva dei nostri ragazzi, la quale non solo determina una drastica riduzione della capacità di astrazione – non ho bisogno di immaginare ciò che mi trovo raffigurato nella sua concretezza –, ma anche abitua l’orecchio all’espressione bassa e triviale. La navigazione in quella no man’s land che è la Rete, l’ultimo video su Youtube di un rapper di successo, una conversazione rubata ai protagonisti di un reality show, una serie televisiva o un film d’azione d’oltreoceano: è così che molti degli adolescenti acquistano informazioni e si creano un loro vocabolario. E se poi consideriamo che leggono pochissimo – magari proprio quegli autori che sia a livello di ritmo narrativo che di linguaggio impiegato si pongono in stretta continuità con la cultura audio-visiva – non deve stupire se poi il membro maschile viene impiegato per esprimere noia, fastidio, sorpresa, curiosità, soddisfazione, paura, anche quando si potrebbe dire tranquillamente “Che cosa vuoi?” o “Mi hai stancato” o “Ma cosa dici?” o “Sì, ci sono riuscito!”; soprattutto, se la conversazione si svolge pacatamente, mentre ci si dirige verso scuola con i compagni di classe o si attende di salire sull’autobus o sul treno che ci riporta a casa. Anche perché, come la letteratura latina non si riduce esclusivamente ai Carmina Priapea (“I carmi priapei”, che prendono nome da Priapo, dio degli orti, raffigurato negli affreschi e nei mosaici con un enorme fallo) o a qualche lascivo epigramma di Marziale, così il patrimonio di parole della nostra lingua (parlata e scritta) possiede una vastità – e i nostri ragazzi non dovrebbero mai dimenticarlo –  che va ben oltre il linguaggio da caserma o da bordello.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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